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martedì 21 febbraio 2017

Clima e piante nel Piceno medievale


Clima e piante nel Piceno medievale

Mi è stato chiesto di parlare per un’ora di piante, di come si distribuiscono sulla superficie terrestre, parlare cioè di Fitogeografia; in relazione in particolar modo alla teoria di Giovanni Carnevale su Aquisgrana in val di Chienti.
Nella figura si vedono due areali come esempio, anche per ricordare che il modo corretto di raffigurare un areale non è quello di riportare una linea che delimita a Nord o a Sud la distribuzione di una specie, ma di evidenziare in colore in una carta geografica la zona in cui la specie cresce e fruttifica.



Fig 1 ( areali ulivo leccio corbezzolo fico)
Io non avrei voglia di fare lezione, anche perché non sono certo un luminare sull’argomento. Solo per caso scelsi questa disciplina per la mia tesi di laurea in Scienze Biologiche.
Vorrei solo fare delle considerazioni sul nesso che la Fitogeografia ha con la tesi di Aquisgrana delocalizzata dalla Germania all’Italia.
Non potendo parlare di tutte le specie botaniche mi limiterò alla vite e all’ulivo.
Ho già scritto qualcosa in proposito in”Aquisgrana Restituta”del 1996, aggiornata poi nel 2005 e nel 2013. Ci tengo a precisare di essere stato per parecchi anni l’unico ad aver messo nero su bianco che la teoria di Carnevale è giusta, portando anche validi argomenti.
Qualcuno potrebbe giustamente pensare che io abbia abbracciato la teoria di Aquisgrana a San Claudio perché ci sono nato: in parte questo ha contribuito, inutile negarlo. Ma se mi sono esposto alla facile ironia è anche perché non ho mai trovato un valido contradditorio se non questo ragionamento: non è possibile che tante teste d’uovo delle università si siano sbagliate per tutto questo tempo.
E qui scatta la favola: per dire per primo “il re è nudo”ci vuole anche parecchia ingenuità, non solo amore per la verità. Per il secondo, il terzo e così via diventa più facile; ma quello che sorprende in questa vicenda è come la maggioranza si ostini a non guardare e a continuare a dire: “il re è vestito splendidamente”.
Ma torniamo a bomba, sennò perdo il filo del discorso.
Il motivo principale del dare ragione a don Carnevale è che della “querelle” sul Capitulare de Villis avevo già una discreta conoscenza dai tempi del Liceo Classico.
Avevo letto brani del francese Marc Bloch e del belga Francois Ganshof che criticavano l’austriaco Alfons Dopsch. (qui ci vorrebbe il prof Morresi Nazzareno)
Questo storico di origini ungheresi, Dopsch, (1868 – 1953), nato sotto l’impero austro-ungarico, ha scritto in tedesco: motivo per cui io non ho letto direttamente nulla di questo signore, (a malapena conoscerò una decina di parole in questa lingua).
Ma è lui che è stato il primo a dire che l’Aquisgrana di Carlo Magno non poteva essere Aachen, a causa della flora mediterranea citata nel “capitulare de villis”.
Dopsch collaborò agli MGH per la sezione dei diplomi carolingi. Nella sua analisi dell’epoca carolingia insiste fortemente sull’elemento romano, che si tendeva a dimenticare nei paesi di lingua tedesca.

Sottolineò la mancanza di rottura (absence de cassure, riferisce Ganshof) dopo la fine dell’impero romano nello sviluppo economico dell’Europa dell’alto medioevo.
La sua interpretazione, in contrasto con Henry Pirenne, belga come Ganshof, del “capitulare de villis” e dell’epoca carolingia era vista come rivoluzionaria, tanto che non fu accettata nelle università tedesche, ma comunque costrinse gli storici a rivedere le loro posizioni.
(Ma come poteva essere accettata in Germania, dico io, proprio mentre stava nascendo il Nazionalsocialismo, che si nutriva del mito di Carlo Magno e del Sacro Romano Impero?)
Sia Ganshof che Bloch erano allievi di Pirenne e criticavano Dopsch, pur rispettandolo formalmente.
Il francese Marc Bloch è stato un grande storiografo che si era formato nelle università tedesche, che morì fucilato dai nazisti nel 1944.
Egli tendeva a minimizzare, senza confutarla, la scoperta di Dopsch: scriveva che non aveva tanta importanza se Aquisgrana stava da un’altra parte, che per la storia nel suo complesso importava poco se stava più a sud, perché immaginava un altro posto al confine tra Francia e Germania, non certo in Italia!
Questo discorso già a quei tempi non mi convinceva per niente, già a 16 anni.
Ma come, il paladino del metodo scientifico, della interdisciplinarità applicata alla storiografia come poteva dire che non importava dove era realmente localizzata la reggia di Carlo Magno?
A che gioco giochiamo?
Per farla breve, se gli storiografi possono prendere cantonate, più o meno in buonafede, se i documenti sono falsificabili, alcuni addirittura falsificati all’origine, a me pare inconfutabile che le piante non possono mentire.
Ma è indispensabile saper distinguere. Nei miei ricordi di bambino di San Claudio sono impresse con chiarezza palme e piante di banano all’ingresso della chiesa. Questo mi autorizza a dire che san Claudio al Chienti si trova in Africa?
Ma devo essere breve.
Ora mi devo concentrare sugli areali della vite e dell’ulivo nell’Alto Medioevo.
Alto Medioevo è il periodo che va dalla deposizione di Romolo Augustolo da parte di  Odoacre fino alla morte di Ottone terzo ( 476 – 1002).
Areale è il termine che descrive la distribuzione di una specie botanica sulla superficie terrestre, l’oggetto di studio della Fitogeografia.
Le piante si distribuiscono sulla superficie terrestre in correlazione con gli elementi e con i fattori del clima.

Gli elementi sono quelli che cambiano: temperatura, umidità, pressione atmosferica, precipitazioni, nuvolosità, venti.
Fattori sono quelli che non cambiano: latitudine, longitudine, altitudine, distanza dal mare, disposizione dei monti, esposizione al sole, correnti marine.
La cosa è complicata dal fatto che parliamo di specie coltivate.
Chi ha ricostruito la storia del Medioevo riteneva che i fattori del clima fossero stabili: in realtà non lo sono. Il clima cambia!
“E’ il clima che decide la storia” dice in sintesi Wolfgang Behringer in “Storia culturale del clima”, edito in italiano da Bollati – Boringhieri , scritto nel 2010 a Saarbrucken.
E conclude con un motto latino: “tempora mutantur, et nos mutamur in illis”, I tempi cambiano e noi cambiamo in essi.

I compilatori degli MGH non potevano conoscere i moti millenari della Terra: che l’asse terrestre oscilla ciclicamente, che la distanza Terra – Sole varia di circa 10 milioni di chilometri, che il sole non irradia il suo calore in maniera costante. Le oscillazioni a breve periodo (11 anni) si conoscono già; quelle a lungo periodo gli uomini le sapranno fra secoli, se non si estinguono prima. Non potevano sapere che vulcani, anche quelli  dell’altro emisfero, possono vomitare tanta cenere da oscurare il sole per mesi, sconvolgendo il normale ritmo delle stagioni.
Oggi abbiamo questa certezza: il clima cambia.
Quando sono nato io, l’anno dell’alluvione del Polesine, gli esperti prospettavano un “global cooling”, un raffreddamento globale.
Quando frequentavo l’università contrordine: i gas serra ci portano al “global warming”, al riscaldamento globale.
Tanto che i libri di testo della mia materia di insegnamento facevano previsioni apocalittiche, specialmente sull’innalzamento del livello del mare. Anche i programmi del ministero pressavano ad inculcare negli studenti i pericoli del riscaldamento globale.
Attualmente un altro contrordine: siamo all’inizio di una nuova piccola era glaciale.






Fig 2 ( diagrammi climatici)

Anche se parecchi non se ne sono ancora accorti e continuano, anche nei media, con la fissa del global warming. I casi più illustri: papa Francesco e Barack Obama, quelli più illustri fra chi i discorsi non li scrivono del tutto in prima persona. Più aggiornato sembra essere Donald Trump, accusato di negazionismo del global warming.
Insomma la Scienza dovrebbe essere chiara e oggettiva, ma gli scienziati non sono né chiari né oggettivi, non sono in sintonia fra di loro, lasciando intravedere interessi nascosti più che il “seguir virtute e canoscenza.”


Fig 3 ( copertina del libro di Behringer)

Mi sono letto il saggio di Wolfgang Behringer, docente di storia presso l’università di Saarbrucken, un luminare esperto anche di storia del clima, nella speranza di leggere dati aggiornati e analisi imparziali di uno che ha i mezzi e il tempo per queste cose.
E per questo lo pagano anche.

Dagli anni successivi alla seconda guerra mondiale gli scienziati hanno potuto usufruire di varie possibilità di risalire alle temperature del passato.
·       Carote di ghiaccio;
·       Isotopi dell’ossigeno;
·       Isotopi del carbonio;
·       Computo delle varve: analisi di sedimenti marini, lacustri, fluviali;
·       Paleobotanica e palinologia;
·       Paleozoologia;
·       Termoluminescenza per datare le ceneri vulcaniche;
·       Dendrocronologia.      

Mi resta il dubbio di dimenticare qualcosa in questo elenco ma può bastare.
Le carote di ghiaccio dell’Antartide hanno permesso di ricavare le temperature dell’atmosfera fino a 800.000 anni fa.

Per l’Europa i dati più attendibili sono quelli dedotti dal ghiacciaio Fernau e da una torbiera prossima ad esso. Si trova fra l’Austria e l’Italia, pressappoco fra Vipiteno e Innsbruck.


Fig 4 Mario Pinna diagramma

I dati delle temperature degli ultimi 2.000 anni, riportati da Mario Pinna, indicano un periodo più caldo dell’attuale per tutto il periodo migliore dell’impero romano.
Dal 400 all’800 le temperature si abbassarono; dopo l’800 si alzarono determinando l’optimum basso medioevale (1.000 – 1.200), a cui seguì una piccola era  glaciale
(Maunder minimum) dal 1.400 al 1.800 circa.
Questi dati di Mario Pinna non coincidono del tutto con quelli di altre zone della Terra, è normale, ma siccome il ghiacciaio del Fernau sta al centro dell’Europa, è a questi che dobbiamo fare riferimento per il nostro Medioevo.
Durante il periodo romano quindi la vite (vitis vinifera) poteva e fu effettivamente coltivata in Gallia, cioè nella Francia attuale, fino alle coste dell’Atlantico.


Fig 5  areale vite Pignatti

In Germania la coltivazione della vite arrivò a Treviri, sulla Mosella, ma non in tutta la valle del Reno, solo nelle zone a sinistra del fiume fra Strasburgo e Magonza.
 Solo dopo la predicazione di san Bonifacio, (circa 680 – 754), grazie ai monaci benedettini, per l’esigenza del dir messa, la vite vi fu coltivata nelle colline riparate dai venti del Nord ed esposte a Sud più settentrionali rispetto a Magonza.
Per coltivare la vite ci vuole anche la cultura (o coltura. Solo negli ultimi anni nell’italiano ha assunto un significato diverso) del vino, che le popolazioni Germaniche non avevano.

Reginone di Prum attesta nella sua cronaca che nell’anno 882 la vite era coltivata a Coblenza, Andernach, Sinzig, praticamente fin dove il Reno scorre in una valle stretta fra le colline. Il capo Goffredo, si lamentava che la zona che aveva avuto, che comprendeva Colonia, non produceva vino. Allora voleva anche le località sopra menzionate.
Reginone di Prum, (840 – 915) fu abate di questa abbazia imperiale nell’Eifel, presso Treviri; fu impegnato a ricostruire l’economia del luogo dopo le incursioni normanne del periodo 882 – 892.
Questa testimonianza di Reginone è importante anche perché afferma che Carlo il Grosso, non riuscendo a controllare la bassa valle del Reno, la Frisia, per tenerselo buono, aveva ceduto quella regione al capo vichingo Goffredo. Questa zona comprendeva Colonia, ma anche la zona dove ora c’è Aachen. Se Aquisgrana fosse stata lì è impensabile che Carlo il Grosso l’avesse ceduta a Goffredo.
In seguito la vite fu coltivata anche in valli riparate fra l’Elba e l’Oder, nel periodo caldo, l’optimum basso medioevale, in cui fu possibile coltivarla anche in Inghilterra.
Con l’avvicinarsi del “Maunder minimum” l’areale della vite ritornò verso Sud.
Oggi il vino si produce anche ad Aachen, ma non si può ignorare quello che è successo nel 1.800: la fillossera, la peronospora e l’oidio stavano per far estinguere la specie “vitis vinifera sativa”. (Esisteva anche la vitis vinifera sylvestris, vite selvatica).
Fu salvata dall’estinzione innestando le viti superstiti su portainnesti, (apparato radicale), di vite americana, resistente ai parassiti  ma anche a temperature più basse, (vitis labrusca, aestivalis, rotundifolia, rupestris, vulpina).
La vite che si coltiva oggi non è quindi la stessa specie che si è coltivata in Europa dai tempi biblici fino al 1.800, è un ibrido resistente al freddo: certo che ora può essere coltivata anche ad Aachen. Ma è fuor di dubbio che non ci poteva crescere la vitis vinifera sativa, tanto più nel periodo freddo alto medioevale.
Da non sottovalutare anche il discorso che i moderni coltivatori hanno aumentato in maniera esponenziale la loro capacità di selezionare varianti genetiche più adatte a situazioni locali circoscritte.

Il nostro “Herr Behringer” dà pochissimo rilievo alla piccola era glaciale alto medioevale, adducendo la carenza di dati storici attendibili, così non riporta nemmeno i dati paleo climatici, che invece sono attendibili come quelli di qualsiasi altro periodo.
Probabilmente questa pecca è stata rilevata solo da me, che avevo comprato il libro apposta: per avere in dettaglio i dati climatici del periodo freddo alto medioevale.
Altra pecca di questo autore, (che mi induce a pensarne male): parla del vino come se la specie che lo produceva nel medioevo e quella che lo produce oggi fosse esattamente la stessa.

Questo sarebbe comprensibile per quelli che scrivono su “cronache maceratesi”, sul “Resto del Carlino” o su “la Rucola”, (chi fa caso ormai a tutte le castronerie che si leggono sui giornali?), ma è inammissibile per un docente universitario storico di professione.

Ma la differenza fra “Vitis vinifera sativa” del medioevo e i vari vitigni ibridi oggi utilizzati non è una quisquiglia, è un fatto fondamentale!
Non ci sono ca… (no, la parolaccia non la dico), nel periodo di Carlo Magno ad Aachen il vino non ci veniva prodotto e non ci si poteva produrre. Come non ci si potevano coltivare parecchie delle specie menzionate nel ”capitulare de villis”.

Qualche intelligentone ha tirato fuori l’obiezione che se Aquisgrana era san Claudio al Chienti, nel “capitulare de villis” sarebbe stato nominato l’ulivo. Invece questo particolare che sembra contrario è un elemento a favore.
Nelle Marche fra il 400 e l’800 l’ulivo non ci cresceva per il periodo freddo alto medioevale; l’ulivo non resiste alle gelate.
Certamente la sua coltivazione ci fu iniziata anche prima del periodo ottimale dell’impero romano, ma poi il suo areale si dislocò più a sud e più a ovest.
Non dovrebbe essere un mistero il fatto che le temperature medie invernali del clima tirrenico sono di circa cinque gradi superiori a quelle del clima adriatico.
Nelle Marche l’ulivo ritornò ad essere coltivato durante l’optimum basso medioevale per essere di nuovo abbandonato durante la piccola era glaciale (Maunder minimum), per ritornare ad essere coltivato dopo il 1.800. Lo dico basandomi solo sui dati della temperatura, ma le analisi palino logiche dei sedimenti, se qualcuno ha voglia di farle, confermeranno facilmente quanto ho detto.
Si accettano scommesse.

Nell’attesa dei dati palinologici riporto alcune frasi delle prime cose che ho trovato in rete sull’argomento: dal libro di Barbara Alfei ed Enrico Maria Lodolini: “ Olivo nelle Marche” :
 “Tra il Seicento e il Settecento (1.600 -  1.700), la coltivazione dell’olivo quasi  scomparve. Napoleone negli anni 1.811 – 1.813, stabilì premi per coloro che… avevano coltivato la colza o posto a dimora e allevato, per almeno 4 anni, 400 alberi d’olivo…
… la coltivazione dell’olivo nelle Marche ha un’origine antichissima. Già nel VII secolo a. C. nel Piceno l’olivo era coltivato insieme al grano e alla vite; ciò è confermato dal ritrovamento di grandi contenitori, i doli. Successivamente l’olivo venne abbandonato, si confuse con la vegetazione spontanea, si inselvatichì… ritornò ad essere coltivato dai monaci benedettini…
…Attualmente nelle Marche la superficie coltivata a olivo è in costante aumento. “

Olea europaea è una pianta sempreverde, che nel periodo più freddo (dicembre – gennaio) va in riposo vegetativo. Resiste alle gelate poco meglio degli agrumi ed  è una pianta molto longeva.

Ma nelle Marche non esistono alberi di ulivo secolari: al massimo di duecento anni. A meno che qualcuno se lo abbia comprato in Puglia prima che il loro commercio fosse vietato.

Come per la vite, c’è da tener conto della selezione artificiale operata dai coltivatori, per cui oggi esistono “cultivar”più adatte a climi che presentano qualche giornata sotto zero, se non sono troppe e se non si va troppo sotto allo zero.
Ma la specie è tipicamente termofila e caratteristica del clima mediterraneo.

A questo punto, esaurito l’argomento scientifico, dovrei chiudere, perché ho detto quasi tutto quello che volevo dire, e una vocina mi dice di smettere perché non ci guadagno nulla a continuare, perciò è sicuro che ho solo da perdere.
Il guaio è che non riesco a capire se la vocina è di un angioletto o di un diavoletto.
Nel dubbio seguo una via di mezzo facendo una drastica sintesi.
Non è possibile che gli storici tedeschi non conoscano Alfons Dopsch e non conoscano Giovanni Carnevale. Ma quando hanno ignorato Dopsch in Germania comandavano i Nazionalsocialisti, o, più semplicemente, i Nazisti.
Non è che sotto sotto comandano anche adesso?
Forse esagero ma di sicuro il Nazionalismo tedesco esiste.
Lo conferma la “Aachen connection” del Diesel gate Volkswagen.


Fig 6

Macerata, li 23 gennaio 2017 
                              Mancini Enzo

va agli



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