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martedì 28 febbraio 2017

Oceani, mari e pesci


Oceani, mari e pesci
Già pubblicato sulla rivista Bolina n. 349 – febbraio 2017


Poseidone con il tonno, uno dei suoi attributi: coppa del IV secolo a. E. V. di Oltos.
Museo nazionale di Copenaghen.

Era la fine del secolo scorso quando l’IMO, l’Organizzazione Marittima Internazionale, lanciava un allarme: se si continua a pescare in questo modo nel 2050 gli oceani e i mari saranno senza pesci. Che il pesce stesse diminuendo se ne erano già accorti da anni i pescatori. La compagnia di pesca Albacor, specializzata nella pesca oceanica del tonno, fino al 1996 riempiva le stive di un suo peschereccio in una settimana, nel 1998 le servivano due settimane di lavoro e nel 2001 in due settimane riempiva metà stiva, e questo calo era avvenuto su tutti i pescherecci della compagnia in tutti i mari del mondo.

I motivi principali per la riduzione del pesce nei mari erano raggruppabili in tre cause:
1.    un’evidente maggiore richiesta del mercato, conseguenza anche dell’aumento della popolazione mondiale;
2.    l’inquinamento dei mari, conseguenza delle acque inquinate dei fiumi che vanno in mare, degli oceani usati come discariche di materiali radioattivi e dei milioni di tonnellate di plastica che finiscono in mare;
3.    una pesca sempre più tecnologica, intensiva e indiscriminata.

Lungo le disabitate coste della Patagonia abbiamo visto navi-fattoria lunghe oltre cento metri battenti bandiera coreana che si lasciano andare alla deriva con enormi tubi che dai fianchi scendevano sul fondo per succhiare dal mare e dai fondali tutto quello che esiste: pesci, cetacei, tartarughe, calamari, alghe, plancton. Il tutto appena aspirato a bordo viene tritato, disidratato, polverizzato, insaccato e deposto sui pallet pronto per essere sbarcato come farina di pesce per l’alimentazione umana e animale o, in alternativa, come concime. Dove passano questi “aspirapolvere del mare” per decenni non può vivere più nulla. Non solo i fondali oceanici sono soggetti a queste forme distruttive di pesca.


Dipinto di Giuseppe Casali all’ingresso del Museo della Marineria di Cesenatico

L’Adriatico è il mare più pescoso d’Italia. I bassi fondali e l’apporto dei fiumi lo hanno sempre reso un mare ricco di fauna ittica che viene usata in loco ed esportata. Nelle città di mare adriatiche i ristoratori servono il pesce fresco dell’Adriatico contemporaneamente ai loro colleghi ristoratori di Milano o di Parigi. Per centinaia di chilometri di costa il pescato rappresenta la seconda fonte di reddito dopo il turismo balneare, ma soffermiamoci un attimo a guardare come si pesca.
Le vongole sono prese da imbarcazioni apposite che danno fondo alla loro ancora sui bassi fondali sabbiosi, si allontanano a motore filando il cavo e poi calano sul fondo dei gabbioni di ferro collegati alla coperta da un tubo. A quel punto il peschereccio inizia ad alare sull’ancora, il gabbione trascinato gratta il fondo del mare coi suoi pettini. Le vongole e tutto quanto è presente sul fondo viene aspirato dal tubo che pompa tutto a bordo per essere selezionato, le vongole vengono lavate e insaccate mentre il resto, ormai distrutto e privo di vita, è buttato in mare. Arrivato quasi a picco sull’ancora la vongolara si allontana in una direzione differente in modo da “pettinare” il fondale a raggiera attorno all’ancora. Come si vede una pesca non molto dissimile da quella delle navi-fattoria lungo le coste della Patagonia.  
Altra forma di pesca caratteristica dell’Adriatico è la pesca a strascico. Quando i pescherecci erano a vela si calava in mare una rete appesantita nella parte più bassa. La rete era calata dalla prua e dalla poppa poi il peschereccio manovrava le vele in modo da scarrocciare col vento. In questo modo la rete grattava il fondo del mare per un’ampiezza pari alla lunghezza del peschereccio. Se il vento e il mare lo permettevano si aumentava l’ampiezza della rete armando a prua e a poppa delle aste con funzione di buttafuori e così la rete era più larga e si operava su un tratto più largo di mare. Con l’avvento del motore la pesca a strascico cambiò: da allora si cala la rete da poppa e per tenerla larga si usarono due apparati di legno derivati dai dragamine chiamati “divergenti”. A motore più potente corrisponde una rete più grande e più pescato.
Nei primi decenni del 1600 la Repubblica di Venezia considerò la pesca a strascico distruttiva per i fondali e ne proibì l’uso nelle sue acque, che all’epoca si estendevano dalla Dalmazia alle foci del Po. Alcuni pescatori di Chioggia decisero allora di abbandonare le acque della Serenissima Repubblica ed emigrarono con barche e famiglie a sud del Po e così da allora la pesca a strascico si espanse su tutta la costa italiana dell’Adriatico.
Non possiamo non notare la lungimiranza della Repubblica di Venezia che già quattro secoli fa si preoccupava della salute del mare e prendeva provvedimenti in merito, cosa che ai giorni nostri pare difetti a livello mondiale.

L’Italia che per secoli, millenni, è sempre stata ricca di pesce al punto da esportarlo, ora non lo è più da tempo. In Italia l’anno scorso si sono pescati 1,27 milioni di tonnellate di pesce [fonte: report del 2016 del New Economic Foundation], appena sufficiente a coprire un quarto della richiesta del mercato italiano, per gli altri tre quarti il pesce sulle nostre tavole deve provenire dall’estero. L’Europa, che fino al 1974 era autosufficiente per la produzione di pesce, ora lo è solo per metà, il resto proviene dai grandi oceani e dalle coste di paesi che non sfruttano le proprie risorse ittiche ma vendono le proprie “quote pesca” ad altre nazioni, come fa appunto l’Argentina per le coste della Patagonia.



Narra la Mitologia che, dopo aver portato i Baccanali in Grecia, Dionisio volendo andare nell’isola di Nasso si imbarcò su una nave di pirati tirreni, ma i pirati si diressero verso l’Asia pensando di venderlo come schiavo. Allora, il dio, accortosi della manovra, trasformò i loro remi in serpenti, riempì la nave di edera e fece risuonare la musica di flauti invisibili; tocco finale, fermò la nave con ghirlande di viti. I pirati impazziti si buttarono a mare, trasformandosi in delfini. È per questo che i delfini sono amici degli uomini e cercano di salvarli durante i naufragi, perché sono pirati pentiti.
Nella foto: particolare di un’idria (Antico vaso per l'acqua a tre manici),
del V secolo a. E. V. oggi al museo d’Arte di Toledo.


La differenza sostanziale tra il pescatore e il contadino non è la evidente differenza del luogo di lavoro, il mare per l’uno e la terra per l’altro, ma che il pescatore raccoglie ma non semina mai.
Partendo da questo assunto alcune compagnie di pesca anni fa hanno proposto all’IMO che su tutti i pescherecci vengano imbarcati dei biologi o dei veterinari col compito di togliere le uova ai pesci prima che questi vengano lavorati o congelati. Le uova così raccolte potrebbero essere fecondate in laboratorio, generare nuovi pesci che potrebbero essere allevati in vasca fino al raggiungimento di una minima taglia. I pesci potrebbero poi essere immessi in mare liberi di mangiare, migrare, riprodursi.. e cercare di non essere pescati. L’idea, che aveva un costo previsto attorno al dieci per cento del costo di produzione, fu accettata solo da alcune società mentre altre si dissero decisamente contrarie, chi per non sostenere il costo dell’operazione, e chi lamentava che il pesce allevato nelle sue vasche sarebbe potuto essere pescato dalla concorrenza.
Da allora sono passati quasi vent’anni e nonostante il boom degli allevamenti di pesce e di mitili la situazione non è migliorata. I pescherecci montano apparecchiature sempre più costose e sofisticate per individuare il pesce che continua a calare in tutti i mari del mondo.
Pavan Sukhdev della FAO, l’ente per l’alimentazione delle Nazioni Unite, continua a dire che intere specie di animali acquatici sono in via d’estinzione, che un quarto delle risorse biologiche marine rinnovabili è depauperata e sovrasfruttata, che nel 2050 non ci sarà più pesce nei mari e negli oceani… ma nessuno lo ascolta.


Cucciolo a pesca di Michele Seccia

Chi è responsabile di tutto ciò? A chi daremo la colpa della fine dei pesci nei mari e negli oceani? Al denaro? Ai politici? All’aumento della popolazione? Alla stupidità umana? Non vorrei che alla fine la colpa fosse del vecchietto che pesca con un filo e un amo da bordo della sua barchetta a vela.

@ 26 ottobre ’16
Galileo Ferraresi

va agli

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