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lunedì 17 aprile 2017

Teofanie cosmografiche, ovvero l’origine del “Sacro manto geografico”





fig. 1: Abbazia di Marienberg  - Cristo pantocratore 

Teofanie cosmografiche,
ovvero l’origine
del “Sacro manto geografico”.
di Claudio Piani & Diego Baratono
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   1. PREMESSA. - Risale ormai all’anno 2003, l’identificazione della fonte iconografica radice del mappamondo affrescato sulla volta della cosiddetta “Sala della Creazione”, spettacolare ambiente nella dimora rinascimentale valtellinese dell’antica famiglia dei Besta a Teglio (Sondrio). L’importante scoperta, oltre ad innescare discussioni sulla diffusione di ben determinata scuola cartografica rinascimentale [1], nella fattispecie quella teutonica riferibile al matematico Caspar Vopell, ha portato alla nostra considerazione pressanti interrogativi sulla presenza di così ricercato e particolare manufatto, in contesti socioculturali apparentemente privi di particolari interessi su questioni geografiche ormai lontane.
Palazzo Besta è dimora patrizia del secolo XV al centro di un’antica via di comunicazione, che smistava la tratta Venezia - Parigi, passante anche per i Vosgi, con quella che da Milano portava a Vienna attraverso i passi retici del Bernina (insellatura a 2323 m; oggi vi transitano la strada e la ferrovia Tirano – Sankt Moritz) e orobici dell’Aprica (a 1172 m). La struttura architettonica del palazzo nobiliare dei Besta, elegante e sobria, è riverbero della linea compositiva dei banchi medicei progettati nello stesso periodo dal fiorentino Filarete, al secolo Antonio Averlino (Firenze, ca. 1400 – Roma, ca. 1469), per il Duca Francesco Sforza. Gli apparati decorativi presenti nella struttura in discorso, quali le “Storie di Enea”, il ciclo dell’“Orlando Furioso”, le “Metamorphosi” di Ovidio, la “Sala della Creazione” o del “Mappamondo”, sono realizzazioni della metà del secolo XVI. Sono, con tutta evidenza, chiara espressione della profonda cultura umanistica dei committenti, i nobili Besta appunto. In nostri precedenti studi (Piani, 2004), si è evidenziato come le pitture racchiuse nella splendida volta della sala in parola, orbitanti appunto intorno al mappamondo vopeliano, sono fedele racconto per immagini del ciclo biblico della “Creazione”. In dettaglio si trovano rappresentati: la “Genesi della Luce”, la “Separazione delle Acque”, la “Creazione degli Animali terrestri, dei Pesci e degli Uccelli”, la “Creazione delle Stelle”, ed in ultimo, la “Creazione d’Adamo ed Eva”. Importante l’iconografia a fondamento d’alcune scene dipinte nella volta, in particolare quell’inerente alla nascita d’Eva: in buona misura, questa sembra replica di figurazioni prototipiche, circolanti in ambiente prettamente toscano. Più precisamente, si tratterebbe delle creazioni riferibili allo scultore - architetto Andrea Pisano o da Pontedera, visibili nelle formelle alla base del campanile giottesco del duomo fiorentino, e di quelle ascrivibili al senese Bartolo di Fredi, le cui opere pittoriche, eseguite verso la metà del Trecento, sono ancora splendidamente conservate nella navata sinistra della Basilica di Santa Fina a San Gimignano. L’indicazione, si vedrà meglio in seguito, è di vitale importanza per avvicinare ed intendere l’insolita strutturazione e culturale e sociale, che ha consentito, ad una località decentrata quale si direbbe Teglio, l’elaborazione e la gestione sapiente di potenti modelli espressivi, per dir così, “ermetici”. Sono molto particolari le tematiche in discorso, invero, maneggiate finanche in modo disinvolto in questo contesto prettamente montano. Si direbbero costruzioni mentali radicate, piuttosto che altrove, nel sofisticato mondo fiorito alla luce ed al calore della Firenze umanistico-rinascimentale, ora trasformatasi in straordinario forno alchemico, influente “atanor” formativo radiante cultura a trecentosessanta gradi. La sala del mappamondo valtellinese ha dimensioni raccolte in 48 mq; è esposta a nord e molto probabilmente era adibita a stanza da letto od a biblioteca. Tutti gli indizi portano ad immaginare un utilizzo del locale come luogo di raccoglimento, d’ozio e, soprattutto, di meditazione. I mappamondi, che sovente decoravano questo genere di locali, erano ingredienti propedeutici all’ideale svolgimento di determinate pratiche meditative. Le scene dipinte, infatti, solitamente ricoprivano notevole funzione didascalica per l’osservatore. L’ornato si rivelava essere vero e proprio trattato di storia universale illustrata consultabile in ogni momento, senza la “fatica” di sfogliare ingombranti quanto delicate pagine di costosissimi libri. Il “mappamondo”, come buona parte delle poche storie universali ed enciclopedie circolanti nel Medio Evo, aveva lo scopo di concentrare su di sé la sintesi dell’intera opera che lo conteneva. Il mappamondo, si è già detto, svolgeva “anche” la funzione di riassunto per immagini. Non è da meno, quindi, la decorazione pittorica ideata per l’interno della “Sala della Creazione”, che acquista valenze polarizzanti, in grado di condensare tutte le immagini bibliche presenti nel locale, in unico continuum spazio-temporale. Ugo da San Vittore scrive nel prologo della sua Descriptio mappae mundi: “Sapientes viri, tam seculari quam ecclesiastica litteratura edocti in tabula vel pelle solent orbem terrarum dipingere, ut incognita scire volentibus rerum imagines ostendant, quia res ipsas non possunt presentare…”. L’idea tanto corretta quanto moderna, che le rappresentazioni per immagini in genere, geografiche in questo caso, aiutino a recepire meglio i concetti rispetto ai testi scritti cui s’accompagnano, sarà ribadita successivamente anche da Ruggero Bacone e da Francesco Petrarca.
Petrarca, infatti, proclama i mappamondi addirittura superiori al viaggio fisico stesso. Si trasmette in qualche misura l’idea, che questi particolari oggetti non sarebbero semplici costruzioni decorative ma vere e proprie finestre sul mondo, interiore ed esteriore, della conoscenza. Potenti varchi virtuali nel tempo e nello spazio in grado di trasportare istintivamente chiunque sia partecipe, in luoghi lontani, sconosciuti, instillando ricchi contenuti pedagogici in chi osserva. Nel Medio Evo, inoltre, i mappamondi erano utilizzati per “spiegare illustrando” aspetti appartenenti sia alla dimensione trascendentale e religiosa, sia a quelli più pragmatici ed immanenti dell’ambito secolare loro contemporaneo. Questa funzione contemplativa, però, le immagini geografiche non la perdono con il trascorrere dei secoli.
         Anzi la ritroviamo rafforzata leggendo alcune riflessioni fatte su questi manufatti da personaggi di spicco, come il cardinale Francesco Piccolomini, futuro Pio III, nel momento in cui commenta un mappamondo inviatogli nel 1465 dal cartografo veneto Antonio Leonardi,  o come nel 1580, nel suo scritto “Discorso intorno alle immagini sacre e profane”, il vescovo di Bologna, Gabriele Paleotti, paragona le carte geografiche, per il loro significato didattico-moralizzante, alle  stesse immagini sacre.
La domanda è inevitabile: anche la carta affrescata di Palazzo Besta assume dunque, queste funzioni dai chiari connotati didattico-meditativi (Mangani, 2006b). Cerchiamo di capirne di più. 
 2. UN NUOVO PARADIGMA COSMOGRAFICO. - L’originale profilo policircolare che avvolge e determina la tipologia di proiezione del mappamondo valtellinese, si è sostenuto più e più volte, è inequivocabilmente riconducibile alla medesima sagomatura “palliografica”[2] impiegata dal Waldseemüller per incorniciare la sua carta del 1507. Questa ormai è storia. A seguito d’ulteriori indagini, nondimeno, la nostra ricerca partita dal mappamondo murale lombardo, raggiunge acuti toni sacri, apprezzabilmente subliminali, inaspettatamente universali (Piani, Baratono, 2008). Il Medio Evo vede utilizzare i mappamondi come vere e proprie pale d’altare o, si è già più volte detto, quali mirate integrazioni iconografico-didascaliche, scelte per ornare pagine di preziosi salteri. Le immagini geografiche diventano pregiati sottofondi d’accompagnamento, stimolanti le menti dei fedeli attraverso la “materializzazione” visiva d’episodi citati nelle sacre scritture. I mappamondi, percepiti come veri e propri emblemi religiosi, erano impregnati della stessa carica simbolica consueta sia in altre raffigurazioni sacre più ricorrenti, sia nei testi a queste abbinati. Di fronte a rappresentazioni geografiche tanto consistenti, il fedele avvertiva, potente e simultanea, duplice spinta emotiva: a raccogliersi in preghiera e, contemporaneamente, ad aprirsi, a “viaggiare” con la sua mente verso il mondo. L’immagine del Cristo, spesso sovrastante le rappresentazioni cosmografiche in discorso, riprende posture classiche specifiche del “Cristo Pantocratore”. La figurazione sacra del Cristo Pantocratore, solitamente, è dipinta nel catino absidale delle chiese medievali. Cornice caratteristica all’immagine del Cristo, diviene la figura geometrica della cosiddetta “mandorla mistica”. Speciale involucro ellissoidale a racchiudere l’immagine divina, intenso simbolo sia della Maiestatis Domini sia della Regina Coelis, ossia di Maria, nel primo cristianesimo la mandorla o amigdala, assume intonazione, per dir così, “esoterica”. La “nuova religione”, infatti, nei difficili momenti aurorali della sua comparsa, utilizza la mandorla, splendida metafora geometrico-simbolica riferentesi all’Acqua, per trasmettere valori e contenuti del tutto propri. L’amigdala diverrà, di qui per sempre, anche la vesica piscis, diretto richiamo al noto ιχθύς [ichthýs], acronimo di: Iesous CHristos THeou Yiòs Soter, ossia Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore[3]. La vesica piscis ha modellato semplice, ma quanto mai efficace a livello simbolico. Si ottiene geometricamente intersecando due circonferenze. Ora, in qual modo l’antica simbologia religiosa, qui considerata, rientra nel percorso d’indagine intrapreso? Per qual motivo la “mandorla” o vesica piscis, custode di precisi linguaggi figurativi religiosi, si trova riecheggiata in alcune particolari carte geografiche, come quella realizzata nel 1507 da Martin Waldseemüller e quella, seriore, dipinta nella Sala della Creazione? Qual è, se esiste, il nesso tra “amigdala”, vesica piscis e “mantello”? Il simbolo della “mandorla mistica”, riferisce di tentativi mirati a fondere e dissimulare, anche attraverso innovative dimensioni geografiche, trascendenza ed immanenza, creatore e creazione. Per intendere meglio il discorso occorre abbandonare per un attimo la visione iconografica cristiana medievale, e risalire nel tempo, a quando visse il greco Strabone d’Amasia (64 a.C. - 20 d.C.), storico e geografo tra i più importanti dell’antichità. Nei diciassette libri della sua autorevole e vasta opera sulla Geographia, Strabone descrive più volte il mondo quale grande isola a forma di clamide, riprendendo in siffatto modo la visione di Eratostene di un ecumene a forma ellittica: “…che lo schema dell’ecumene abbia forma di clamide è assolutamente chiaro, dal momento che le estremità orientali e occidentali si rastremano a ugnatura, battute dall’Oceano, e diminuiscono di larghezza …”.
Strabone nel passo citato, estratto dal libro II, utilizza il preciso termine “clamide”. Il significato del vocabolo “clamide”, equivale a “pallio”, in pratica, a “mantello”. Il capo d’abbigliamento in parola, sorta di corto mantello, era indossato dagli antichi guerrieri greci tessalici; di fattura semicircolare, si portava sulla spalla sinistra. Strabone insiste in merito alla peculiare forma ellittica data ad alcuni mappamondi, con sagomatura riconducibile appunto alla foggia della clamide; ma perché utilizzare un siffatto termine di paragone? Tecnicamente, il modulo geometrico della mandorla-clamide, è funzionale, a migliore trasposizione su piano bidimensionale, delle coordinate sferiche tridimensionali ricavate “misurando” il mondo utilizzando come punto proiettivo azimutale un parallelo del Mediterraneo. Strabone, invero, si sofferma frequentemente sulla similitudine intercorrente tra rappresentazione geometrica e mantello.
Ciò induce a ritenere le riflessioni del geografo greco, come sarà meglio confermato in seguito, contenere riferimenti iconografici e simbolici più carsici. Questi riferimenti, dopo la debita ricodifica, sono confluiti in altri orizzonti culturali. Peculiari correlazioni tra allegorie sacre cristiane ed alcune carte geografiche sembrerebbero confermare l’idea. Il profilo a guisa di mandorla, rappresenterebbe dunque, per il primo mondo cristiano, la stilizzazione del simbolo acquatico dell’ ιχθύς, del “pesce cristico”. L’amigdala racchiude, letteralmente, testimonianza di tentativi sincretistici orientati da un lato a stigmatizzare e dall’altro ad assorbire e ricodificare, modelli simbolici molto più arcaici, legati originariamente al potente, indelebile culto della Magna mater, al suo fertile organo sessuale, apertura imprescindibile dalla quale erompono forme di vita sempre nuove. Il simbolo ittico cristiano dell’ ιχθύς, del “pesce eucaristico”, include percorsi metonimici facilmente rintracciabili. Partendo da archetipi primordiali totalmente muliebri, questi evolvono ramificando sia nella simbologia “al maschile” del Cristo Pantocratore, sia mantenendo l’antica allusione “al femminile” fiorendo nel dolce richiamo mariano.
La raffigurazione in parola, in ogni caso, non è esclusiva delle iconografie sacre medievali. La cosa è alquanto curiosa, poiché la geometria amigdalica si ritrova involucro d’alcune raffigurazioni zodiacali, come riscontrabile nelle Très Riches Heures del Duca di Berry, del 1413, ed inoltre, già cornice per alcune rappresentazioni geografiche del secolo XIV. Queste ultime, realizzate dal monaco inglese Ranulf Higden, rappresentano capitolo a se stante, nello scenario cartografico medievale.
Il motivo che ha indotto il religioso a realizzare tali carte geografiche, tuttavia, non è ancora del tutto chiaro. Potrebbe essere ipotesi plausibile che il monaco inglese, veduti casualmente arcaici manufatti geografici di forma ellissoidale, sia rimasto colpito dalle inusuali fattezze utilizzate. Il religioso intuisce, forse, che gli antichi adoperavano forme e moduli iconografici identici a quelli codificati poi dal mondo cristiano. Per il monaco recuperare la versione greca dei mappamondi a forma d’amigdala-clamide, rimaneggiarne il contenuto allegorico originario sostituendolo mediante iconografie dal tenore cristiano come la vesica piscis, effigie del Cristo, sembra diventare atto spontaneo, forse perché a lungo meditato. I mappamondi medievali a forma d’amigdala-clamide, secondo nostro ragionamento dunque, suggellano nel loro interno elevati e delicati concetti sincretistici, che riportano indietro nel tempo, a primigenie tradizioni mitico-simboliche assimilate, rivalutate e trasfigurate in nuovi emblemi religiosi. Al contempo, nondimeno, i mappamondi medievali rimangono veri e propri strumenti di lavoro al servizio di più pragmatiche attività mercantili, mestieri scanditi a loro volta da un’imprescindibile, irrinunciabile unità di misurazione temporale: la lunghezza dell’“amen”. Spazio religioso e dimensione del quotidiano, forse per la prima volta, vengono a trovarsi armonicamente integrati. L’ermetica rappresentazione amigdalica è tanto efficace, da essere ancora utilizzata, nel 1457, nel famoso planisfero denominato “Atlante genovese”, per via delle simbologie araldiche contenute, appartenenti alla nobile famiglia degli Spinola (Baldacci, 1983).

Fig. 2 Mappamondo a mandorla, Ranulf Higden


Fig. 3: Atlante genovese, 1457.
Era tradizione abbastanza consueta, dunque, concepire certe carte geografiche come moduli figurativi dai contenuti religiosi non sempre “in chiaro” per modalità d’espressione. Il linguaggio simbolico adottato spesso è criptico. I contenuti, tuttavia, risultano “decrittabili” ed “operativi”, nel momento in cui si riesce ad individuare la versatile chiave di lettura, il software, a sua volta in grado d’attivare i differenti hardwares coinvolti, ossia mappamondi a forma di clamide, Cristi Pantocratori e Madonne Misericordiose, riducendo il tutto ad unico, comprensibile linguaggio. Per quanto conosciamo, la “Creazione del Mondo nel suo terzo giorno” è il potente software di riferimento da utilizzare in quest’ambito culturale. Si può aggiungere, inoltre, che la carta di Palazzo Besta, presentando tutti i tratti simbolici sin qui messi in evidenza, appartiene, a fortiori, al medesimo genere simbolico-descrittivo.  
 3. L’ORIGINE DEL SACRO MANTO GEOGRAFICO. - L’azione primigenia che innesca l’“Atto” per eccellenza, è dar forma, plasmare e controllare una matrice primordiale indefinita. L’atto è autoreferenziale, nel senso che assume tutta la sua efficacia ed energia nel momento in cui il Creatore manifesta a se stesso l’opera finita in ogni suo dettaglio, compiacendosi del lavoro ultimato. La materia a questo punto è riconoscibile, fisicamente localizzata nello spazio e di conseguenza nel tempo.
Disparate rappresentazioni fotografano questo momento fondante: riportano ad antichi topoi, presenti nelle più remote tradizioni, da quell’egiziana fino a quella greca per proseguire fino a quell’ebraica, attraverso miti e leggende. In proposito, episodio mitologico particolarmente interessante tra i numerosi che hanno attirato la nostra attenzione, è certo l’elaborazione mitopoietica del filosofo presocratico greco Ferecide di Siro, del secolo VI a.C. Le sue idee sono raccolte nell’opera cosmografica La caverna dei sette anfratti. Il racconto, attraverso azione sacrale molto suggestiva e particolare, celebra le nozze mistiche tra Zeus e la Terra, Ctonia, in seguito Gea. L’avvenimento sancisce nuovo ordine cosmico. La divinità incontra Ctonia, la Terra, ancora informe da plasmare e identificare. Le depone quindi sulle spalle un mantello ricamato, ideale “strumento pedagogico”, dove compaiono le terre, i monti, i mari e le città:

per lui fanno le case, molte e grandi. E dopo che le ebbero portate a termine, tutte, assieme ad arredi e a servitori maschi e femmine, e a tutte le altre cose necessarie, ecco, quando tutto risulta pronto, fanno le nozze. E quando giunge il terzo giorno delle nozze, allora Zas fa un manto grande e bello, e su di esso intesse in vari colori Terra e Ogeno e il palazzo di Ogeno … volendo invero che le nozze siano tue, con queste ti onoro. Ma a te salve da me, e tu con me congiungiti. Ecco come furono per la prima volta – dicono – i riti del disvelamento: da ciò prese poi origine la consuetudine, sia per gli dèi sia per gi uomini. Ed ella gli ribatte, ricevendo il manto da lui….[4]

Nel frammento papiraceo del III-IV secolo d. C., scoperto nel 1897 da Grenfell e Hunt, è descritta tale particolare ed enigmatica rappresentazione cosmogonica. La potenza plasmante del manto geografico intessuto da Zeus, nell’avvolgere la massa terrena, realtà immanente ma indistinta ed offuscata, informe ma incorrotta, rappresentata appunto da Ctonia, darà vita al cruciale processo formativo. La grezza spazialità sferoidale acquisirà, attraverso l’omaggio onorifico del “mantello”, potente atto sacro, le sembianze di Gea, ossia della Madre Terra. Avverrà, la metamorfosi, proprio il terzo giorno, secondo progetto precostituito di chi ha già in mente il chiaro disegno cosmografico da realizzare. Il mito di Ferecide delle nozze tra Zas e Ctonie, prima che fosse ritrovato il frammento citato, era parte di testimonianza lasciataci da Diogene Laerzio: “Zas orbene e Tempo furono sempre, e Ctonie: ma a Ctonie toccò il nome di Terra, dopo che Zas la onorò dandole la terra in dono”. Clemente Alessandrino (150-215 d.C.), ecclesiastico greco profondamente intriso di pura spiritualità neoplatonica - substrato mistico-culturale questo, ripreso nel secolo XV proprio a Firenze da Argiropoulo, Cusano, Ficino, Pico della Mirandola - nei suoi Stromata [5] riecheggia lo stesso mito: “…un mantello grande e bello, e in esso raffigura Ge e Ogeno e le case di Ogeno…”. Clemente, nello stesso passo, accenna a figura di quercia alata, o terebinto, pianta simboleggiante solitamente sapienza vergine e misericordia, su cui è disteso il particolare pallio ricamato.
L’abbinamento del manto con l’albero origina valori semantici ben superiori alla semplice somma delle singole parti in gioco. Si tratta, infatti, di significati paradigmatici tanto potenti da improntare, governandolo, l’atto più sacro ed insondabile dell’intero ciclo mitologico: la creazione nel terzo giorno del mondo e della realtà apparente in cui esso si agita. Particolare indicativo, è il movimento “fisico” del pallio geografico: da posizione avvolgente sulle spalle di Gea, a sistemazione aperta sui rami del sacro albero alato[6]. Alla vista, è inevitabile, il manto disteso assume precisa, inequivocabile, inconfondibile configurazione. Si tratta della stessa sagomatura riscontrata in peculiari rappresentazioni sacre cristiane: le Madonne ed i Santi che aprono le braccia in segno di protettiva accoglienza. Sono questi i soggetti deputati ad indossare manti la cui valenza, senza dubbio, è misericordiosa. L’iconografia, però, sembra riprendere tratti e posture di figure antropomorfe molto più antiche, caratterizzanti rappresentazioni rupestri dell’età del Bronzo con soggetti, i cosiddetti “oranti”, in atteggiamento votivo ed a braccia spalancate.
Il modulo dalla speciale impronta figurativa “pallioforme”, sembra trasparire anche dal contorno proiettivo di figurazioni geografiche quali la carta del 1507 di Martin Waldseemüller o quella seriore di Caspar Vopell. L’immagine del mantello, suggestiva per evocare l’antico mito ferecideo, curiosamente sopravvive nel tempo. A distanza di duemila anni, infatti, nel secolo XVI, si ritrova medesima rappresentazione, integra nel significato, utilizzata da alcuni artisti per celebrare l’epocale momento della scoperta e battesimo del Nuovo Mondo. Stradanus, ad esempio, per realizzare la composizione figurativa della sua Americae retectio, ripropone ingredienti mitologici esclusivi della teofania immaginata da Ferecide. La scoperta dell’America, meglio d’altri, sembra essere topos privilegiato dove l’atto del “disvelamento”, mitologicamente sacro in Ferecide, si trasfigura assumendo colorazioni di puro atto creativo, ancora sacro sì, ma ora dalle forti modulazioni cristiane; più precisamente, “mariane”.
Con la scoperta del “Nuovo Mondo”, all’intero genere umano si è rivelata la quarta parte del mondo. Il manto, che per Ferecide è ingrediente catalizzatore della creazione, si ritrova, nella rappresentazione dello Stradanus, sfondo eccellente per tratteggiare l’idea commemorativa originatasi nell’uomo rinascimentale sull’epocale impresa. Stradanus è noto per pregevoli incisioni sulla visione allegorica dell’America, che in genere rappresenta come donna nuda, soggetta allo sguardo vigile d’Amerigo Vespucci, in sembianze marziali. L’elemento che più colpisce osservando la sua Americae retectio, è proprio il drappeggio con cui il mantello quasi domina, avvolgendolo, il globo terracqueo. La scena è carica di figure simboliche: la colomba, palese richiamo allo Spirito Santo, tiene con il becco un apice dell’ampio tessuto. Enigmatico, Giano, rappresentante la città natale di Cristoforo Colombo, ossia Genova, curiosamente, tenta invano di sollevare la sua porzione di manto.
L’azione del “disvelamento”, invece, si rivela di facile esecuzione per la figura opposta a Giano. Si tratta di Flora, chiaro riferimento a Firenze, patria dell’altro protagonista della vicenda, ossia Amerigo Vespucci. Sottili le allusioni riferibili alle imprese dei due navigatori. Si tralasciano, tuttavia, per concentrare l’attenzione sul panneggio avvolgente del maestoso mantello. Chi ha dimestichezza con modelli figurativi sacri, osservando il mantello profilato da Stradanus, scorgerà immediatamente forte similitudine con rappresentazioni di “Madonne misericordiose”, che utilizzano l’apertura del proprio manto per contenervi al di sotto, particolari vedute scenografiche [7].


Fig. 4:  Johannes Stradanus, Frontespizio della  Americae retectio, 1592, incisione di Adrian Collaert.
Il pallio teso dalla colomba, ossia dallo Spirito Santo, dunque, diviene potente ancorché imperscrutabile riferimento a Maria. Maria, quindi, unica mediatrice possibile tra dimensione trascendente ed immanente, partecipa in maniera dinamica all’azione, offrendo aiuto protettivo al disvelamento del Nuovo Mondo, attraverso il suo generoso abbraccio universale. L’intreccio d’allusioni iconografiche tanto intense ed articolate, grazie al “palium geografico” suggerito da Ferecide di Siro, incomincia ad acquisire significato. La profilatura del manto presente nell’Americae retectio, infatti, oltre a richiamare l’emblema palliografico caratteristico delle Madonne misericordiose, si riallaccia chiaramente ad uno dei più conosciuti mappamondi del secolo XVI, ossia quello realizzato nel 1507 a Saint-Dié dal geografo e matematico Martin Waldseemüller (Piani, 2003a e 2003b).  



Fig. 5: Martin Waldseemuller, Universalis cosmographiae, 1507.

4. METONIMIE PROFANE E SACRE. - L’azzardo nostro è volere dimostrare l’esistenza della simbologia sacra del mantello, celata da oltre cinque secoli, fra i tratti sinuosi di una delle più importanti carte rinascimentali conosciute. In altri termini, si è fermamente convinti che le puntuali sintesi iconico-cosmografiche rintracciate, oltre ad essere raffinatissima elaborazione di una o più occultae mentes posizionate a livello di retroscena nel contesto di questa vicenda, conservano strutture semantiche tutt’altro che trascurabili. Anzi. I contenuti sono rivelatori del diretto coinvolgimento tra chi, in qualche modo, ripristinando certa continuità storica ricodifica primordiali simbologie sacre proiettandole nelle profondità narrative del documento cardine per la storia della geografia, ossia la carta del Waldseemüller, e chi perpetua “tradizioni sapienziali” dai contenuti non sempre allineati con la cultura ufficiale del momento, ossia il mondo umanistico fiorentino. La nostra chiave di lettura, infatti, trova favorevole riscontro in certi significativi passaggi epistolari ed in precise raffigurazioni pittoriche, testimonianza di contatti intercorsi fra il mondo culturale umanistico italiano e quell’erudito operante a Saint-Dié-des-Vosges agli inizi del secolo XVI.



Fig. 6: Ghirlandaio, Madonna della Misericordia, 1472-73, Firenze, Ognissanti.


Fig. 7: sovrapposizione in scala 1:1 della riproduzione dell'affresco denominato Madonna della Misericordia
( Ghirlandaio - chiesa di Ognissanti, Firenze 1473 ),  con la carta di Waldseemüller del 1507.


Oltre alla lettera datata ottobre 1507 inviata da Renato II al cardinale Francesco Soderini, fratello del gonfaloniere Pier Soderini, ritrovata in questi ultimi anni dal professor Benoit Larger (2008), l’ipotesi di stretto rapporto fra Saint-Diè e Firenze, si mostra stillare copiosa, ad esempio, dalla collazione tra quanto scrive Amerigo Vespucci nella sua lettera a Pier Francesco de Medici, di cui si riporta l’originale datato Siviglia 28 luglio 1500, la Nota d’una letera scrive Amerigo Vespucci…., e l’introduzione della Cosmographiae introductio stilata dal cosmografo vosagense Martin Waldseemüller nel 1507:

… Ho acordato, Magnifico Lorenzo, che, così come v’ò dato conto per letera di quanto m’è ocorso, mandarvi due figure della descrizione del mondo fate e ordinate di mia propria mano; e sapiate che sarà una carta in figura piana e uno apamondo in corpo sperico….

…con l’aiuto dei libri di Tolomeo secondo una copia greca e aggiungendo le quattro relazioni di Amerigo Vespucci, ho preparato una rappresentazione del mondo in sfera solida e piana….

Da questo ultimo passo, ma non è l’unico, emerge un’informazione preziosa. Gli eruditi lorenesi sembrano aver preso spunto per il loro testo proprio dalle lettere autografe d’Amerigo. I pregiati manoscritti, si deve ricordare tuttavia, non erano certo disponibili a chicchessia, nella Firenze dell’epoca (Formisano, 2006, pp. 20-22). Altro elemento indicativo, nell’insieme, è il dipinto fatto realizzare sempre dai Vespucci a Firenze nella chiesa d’Ognissanti. Realizzato dal Ghirlandaio intorno al 1472, curiosamente a vent’anni esatti dalla scoperta ufficiale del “Nuovo Mondo”, il dipinto oltre a presentare evocativi connotati religiosi cari ai fiorentini, ripropone il motivo simbolico ricorrente in questo studio: la “Madonna della Misericordia” ed il suo “mantello”. Sotto il manto della figura mariana compaiono, disposti in modo da configurare evocative, quanto elusive, disposizioni geometriche, dodici personaggi: Sant’Antonino più undici rappresentanti della famiglia Vespucci. Tra questi fa capolino, giovane ed imberbe, Amerigo. Il volto del giovane Amerigo presenta caratteristiche uniche, ben riconoscibili. I suoi tratti fisionomici, infatti, sono perfettamente sovrapponibili a quelli del volto, ora invecchiato, dell’Amerigo Vespucci rappresentato in cartiglio in alto a destra, nel mappamondo murale del 1507 del Waldseemüller. Non esistono altre immagini del navigatore fiorentino con stessi identici tratti identificativi [8]. Come spiegare, dunque, la notevole “coincidenza” figurativa?
Per quanto noto, è possibile che gli eruditi lorenesi acquisiscano il bozzetto riproducente Amerigo in maturità, direttamente a Firenze, dalla famiglia stessa del navigatore. E’ possibile, seconda ipotesi, che in seguito a spostamenti in Italia dell’umanista Matthias Ringmann, gli alsaziani vengano a conoscenza dell’insolita rappresentazione mariana presente a Firenze, nella chiesa di Ognissanti [9]. Colpiti dall’insolita immagine mariana definita dal Ghirlandaio, ne realizzerebbero copia. Si spiegherebbe così, la sorprendente sovrapponibilità geometrica intercorrente tra la sagoma del mappamondo vosagense ed il contorno del manto della Vergine, realizzato dal Ghirlandaio per il casato Vespucci. La terza ipotesi potrebbe pensarsi commistione delle due precedenti. Il profilo del manto mariano, dunque, si rivela essere il software, che suggella gesta narrative cosmogoniche antiche, quelle di Ferecide, che riconducono al “terzo giorno della Creazione”. E’ anche forte richiamo, nondimeno, a quel 25 aprile del 1507, giorno in cui, per la prima volta, agli occhi degli uomini si dischiudono orizzonti geografici certo nuovi, ma inspiegabilmente già definiti, misurati, quasi perfetti. Si tratta di un Mundus novus per cui sarà coniato il toponimo “America”, inglobato maternamente in un grembo palliografico dissimulato sì, ma trasudante, in ogni caso, forti connotati simbolico-persuasivi (Mangani, 2006a) [10].
La scritta impressa sullo stilobate ai piedi della Vergine ideata dal Ghirlandaio per i blasonati Vespucci, in effetti, esalta il significato mitopoietico e pedagogico del momento creativo in parola. L’iscrizione latina recita: “della misericordia di Dio è piena la terra”. Significativamente, il salmo poche righe dopo descrive anche il “terzo giorno della Creazione” [11]. E’ quasi premonizione di quanto un giorno, alle pendici dei Vosgi, si sarebbe disvelato all’umanità intera.
Il mito fondante, la visione moralizzatrice di un destino mediato dall’intervento divino sempre presente, sono ingredienti che ritornano vigorosamente anche nell’iconografia del mappamondo affrescato valtellinese. Gli storici dell’arte che si sono occupati della “Sala della Creazione” dove campeggia l’opera geografica del Vopell, sono concordi nel sostenere gli affreschi religiosi momento celebrativo a suggello dell’atto maritale, avvenuto nel 1576, tra il cattolico Carlo I Besta e Anna Travers, nobildonna di famiglia protestante. Nel ciclo pittorico gravitante attorno all’affresco geografico in discorso, spicca la totale assenza di rappresentazioni antropomorfe delle divinità. Si legge in filigrana, poderosa, l’influenza esercitata dalla cultura protestante dei Travers, famiglia allora molto potente ed influente in Valtellina. E’ ovvio che l’arrivo nella famiglia Besta del nuovo membro femminile, legato spiritualmente a teorie riformiste d’oltralpe, abbia peso non indifferente nella scelta dei motivi decorativi a carattere religioso della splendida sala. Modelli figurativi protestanti, grondanti contenuti sacri cattolici che, però, hanno avuto origine da quel grembo inesauribile costituito dal mondo culturale umanistico fiorentino, dove tutto ha inizio, e che, come in un cerchio, consente al tutto di concludersi decorando le pareti di una nobile dimora in un piccolo sperduto borgo medievale delle Alpi retiche. Lo splendido mappamondo vopeliano affrescato da anonimo nel 1570 [12], proprio per sua natura strutturale, per forma e per contenuti, riconduce inesorabilmente alla sagoma del mappamondo del 1507 elaborata dal cenacolo vosgense. E’ inevitabile pensare, a questo punto, che anche l’affresco valtellinese celi, nel suo profilo, la stessa simbologia mariana della carta lorenese. Fu, dunque, scelta strategica mirata quella dei cattolicissimi Besta, d’utilizzare un mappamondo palliografico, e quindi mariano, all’interno di un ciclo d’affreschi dagli influssi “riformisti”? Si voleva così equilibrare, in estremo atto sincretistico, i contenuti mediatici degli stessi, troppo sbilanciati verso idee riformate? Esaminando l’impianto iconografico del manufatto geografico valtellinese attraverso l’implacabile crivello offerto dalla matrice palliografica, allo stato dell’arte, diventa più che plausibile pensarlo. 



Fig. 8:  Sala della Creazione, 1576, Teglio, Sondrio, Palazzo Besta.

 Bibliografia

FONTI MANOSCRITTE

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Milano, presso il Dipartimento di Geografia e Scienze umane dell’ambiente dell’Università degli studi;

Si ringraziano per la loro cortese e preziosa collaborazione:
il Professor Guglielmo Scaramellini, dell'Università Statale di Milano
&
il Dottor Bruno Vecchio, Direttore della Società Geografica di Firenze.





[1] History of Cartography World Wide Web, Newsletter 2003, summer, Editor’ News, pp.3-4.
[2] A forma di mantello, mariano in questo caso, come si vedrà oltre.
[3] Si veda a questo proposito Baratono, 2004, pp. 89 e ss.
[4] Papiri greci, II, IV secolo d.C.
[5] Tessuti, stoffe, tappeti.
[6] Corre obbligo ricordare la mitologia greca, con il “vello d’oro” dell’“ariete alato”, dedicato ad Ares e conservato disteso su quercia nel bosco sacro al dio, nonché l’avventurosa epopea marittima dei cinquantacinque navigatori “Argonauti”. Gli ingredienti, coerentemente, sono sempre gli stessi. E’ ancor più interessante, inoltre, il sottile richiamo alla clamide tessalica, giacché pure Giasone proveniva dalla Tessaglia.
[7] L’iconografia in parola è riscontrabile sia nella raffigurazione trecentesca della famosa Madonna fiorentina di Peregallo, sia nell’antico logo mariano della Fabbrica del Duomo di Milano. Il ricorso alla protezione mariana contempla dunque non solo aspetti significativi per nobili famiglie o per anonimi devoti e disciplini. E’ anche impiegata per emergenze architettoniche e piante di città, lasciando già intuire l’utilizzo futuro che di questa simbologia pallioforme si farà anche in ambito cosmografico. Il panneggio delle Madonne misericordiose, dunque, si presta bene per essere trasformato da semplice immagine sacra, in un vero e proprio sipario scenografico, sotto il quale si dispiegano a guisa di diorama sfondi paesaggistici i più diversi. Troviamo un esempio di simile utilizzo iconografico anche nelle splendide Madonne dipinte dal francese Enguerrand Quarton nel 1553-54 o in quelle di Francesco di Giorgio Martini dove riscontriamo Maria proteggere la città di Siena da eventuali calamità sismiche. 
[8] Esistono impianti iconografici similari, con immagini di personaggi illustri, nello “studiolo” del Duca Federico da Montefeltro risalenti alla seconda metà del secolo XV. Si tratta, quindi, d’iconografie coeve al dipinto del Ghirlandaio realizzato per la chiesa d’Ognissanti. E’ inevitabile pensare ad una circolazione continua d’idee nel periodo.
[9] I contatti finora qui evidenziati con l’Italia da parte del cenacolo dei Vosgi attraverso la figura dell’umanista Matthias Ringmann, sono comprovati dalla lettera di Gianfrancesco Pico della Mirandola, nipote di Giovanni Pico, scritta e indirizzata a Matthias Ringmann, ed inserita dallo stesso, nell’edizione tolemaica edita a Strasburgo nel 1513. Nell’epistola datata 29 agosto 1508 si attesta che Pico fornisce al Ringmann, partito da Strasburgo in direzione di Novi Ligure, dove allora risiede il nipote di Giovanni Pico, un codice geografico greco che permette una migliore traduzione dell’opera di Claudio Tolomeo in via di realizzazione. Il codice è riferibile attualmente al Bav.Vat.Gr.191. Ringmann da Novi ligure prosegue verso Ferrara dove incontra un altro letterato, Lilio Gregorio Giraldi. Questo non è il primo viaggio in Italia del Ringmann. Nel novembre del 1505, infatti, aveva già incontrato Gianfrancesco Pico nella città di Carpi. E’ dopo questa sua visita, che Ringmann decide di proseguire verso Firenze per allacciare rapporti con la famiglia Vespucci? Entrò nella chiesa di Ognissanti per visitare le tombe degli avi di Amerigo rimanendo colpito dall’immagine affrescata della Madonna della Misericordia che li sovrasta, suggerendola in seguito a Gautier Lud, fervente mariano, Lud, infatti, fu colui che nel 1494 introdusse la festa della presentazione della Vergine al Tempio, per utilizzarla come modulo strutturale del planisfero del 1507? Ricordiamo che Ringmann era in animo giusto per recepire particolari stimoli religiosi. Nel 1504, infatti, studia a Parigi nel collegio del cardinale Le Moine: essendo allievo dell’umanista Jacques Lefèvre d’Etaples, abbraccia le idee spirituali-mistiche della devotio moderna. Questo movimento riformista avvicina il credente attraverso un percorso spirituale misericordioso, che lo porta ad immedesimarsi con la figura stessa del Salvatore, secondo una visione della religione molto più personale. Da sottolineare inoltre l’opera Sintagma de musis pubblicata nel 1511 dallo stesso Ringmann. Frutto dell’incontro con l’umanista ferrarese Lillio Giraldi, partendo dalle notizie che gli antichi greci e latini davano sul nome e sull’origine delle Muse, Ringmann, in questo suo lavoro chiarisce la questione sul perché le virtù morali, le qualità intellettuali, le scienze e i tre continenti del Vecchio Mondo abbiano sembianze e nomi femminili. Esempio, quindi, illuminante di come l’alsaziano fosse sensibile alla tematica della raffigurazione retorica della donna come imprescindibile utero da cui tutte le arti e le virtù morali ebbero forma ed origine.
[10] Si segnalano a riguardo in questo studio, le note (4) e (7) dove Mangani sottolinea alcuni passaggi fondamentali, basandosi proprio sulle ipotesi da noi prospettate a partire dal maggio 2003, in merito alle quali la sagoma proiettiva della grande carta murale stampata a Saint-Dié-des-Vosges nel 1507, possa celare un ermetico messaggio simbolico caritatevole, ossia misericordioso.
[11] Salmo 33, 5. Altro salmo molto interessante in questa prospettiva è il 104, Inno a Dio creatore, dove esplicitamente si parla di manti e drappi in relazione all’atto creativo.
[12] Sono numerosi ed innovativi gli stimoli culturali, che portano i geografi rinascimentali a rappresentare la realtà dello spazio che li attornia, mediante precise regole matematiche e rigorose proiezioni prospettiche. La riproduzione che una carta geografica riporta, ancorché accurata, non è però fotografia della realtà, bensì unicamente rappresentazione “simbolica” della stessa. La riproduzione che scaturisce ritraendo virtualmente un certo territorio, nondimeno, offre l’illusione di sottomettere, per dir così, al volere del geografo e del mecenate committente, le leggi stesse della natura e del creato. Le carte geografiche, specialmente a grandi dimensioni, destinate ad abbellire le sale dei palazzi nobiliari, divengono così veri e propri strumenti deputati a promanare potere e stupore. L’usanza di decorare le sale dei numerosi palazzi patrizi dell’Italia rinascimentale, prende avvio a Venezia nel 1476, quando il geografo e prelato Antonio Leonardi viene incaricato d’affrescare, con disegni di carte geografiche, la “Sala dello scudo” di Venezia. Sarà soltanto nella seconda metà del secolo XVI, tuttavia, che questa particolare forma d’arte si diffonderà in tutta la penisola grazie all’iniziativa di Pio IV (1559-1565), ossia quel Giovanni Angelo Medici, già arciprete di Mazzo Valtellino (Sondrio), che vorrà la Terza Loggia del Vaticano decorata per mano di Pirro Ligorio, con ben trentasei carte geografiche. Insieme alle gallerie delle carte geografiche del Vaticano, si devono anche annoverare, come già detto, la “Sala dello scudo” di Venezia, la “Sala dei Mappamondi” di Palazzo Farnese a Caprarola, la “Sala del Guardaroba” a Firenze, la “Sala delle Carte” nella Biblioteca del Monastero di S.Giovanni, a Parma. Oltre che per le visioni geografiche che riproducono, gli esempi qui ricordati, ma n’esistono anche altri seppur di minore importanza, sono interessanti per rendere manifeste le ambizioni dei committenti, papi o principi che siano. In tal senso quindi, il mappamondo affrescato di Teglio si può inserire a buon diritto nel particolare ed esclusivo circuito d’arte geografica evidenziato. Realizzato nel 1576 da mano ignota, probabilmente si tratta del pittore e cartografo bresciano Aragonius Aragonus, per volere del cattolico Carlo I Besta in occasione del suo matrimonio con la calvinista grigionese Anna Travers, l’affresco decora un quadrante della volta delimitante la “Sala della Creazione”, locale così denominato per la presenza di notevole ciclo pittorico a soggetto biblico. L’affresco geografico di cm 276 x 106, riproduce in scala fedele, quindi 1:1, la fonte iconografica “madre”, individuata dagli scriventi nel 2003, ossia la “Weltkarte” di Caspar Vopell, stampata a Colonia nel 1545. Il mappamondo di Teglio, secondo dettami di forte concezione riformista, è privo di qualsiasi decorazione araldica o antropomorfa, contrariamente all’originale di Caspar Vopell, disseminato, di nomenclature e raffigurazioni varie. Inoltre, se l’intero impianto cosmografico vopelliano è colorato in tonalità giallo oro, il mappamondo dei Besta presenta invece cromie sicuramente più moderne. Gli oceani, infatti, sono dipinti in blu. Le terre ed i continenti in verde. I toponimi presenti in entrambe le carte, sono perfettamente corrispondenti, sebbene quelli dell’affresco tellino risultano sbiaditi, quando non proprio rovinati da rimaneggiamenti poco accorti. In ogni caso, la meccanica sovrapposizione delle due opere evidenzia precisa e totale coincidenza strutturale, sottolineando, al contempo, l’unicità del manufatto valtellinese per l’orizzonte cosmografico rinascimentale. La presenza di un prodotto di così rilevante portata storica in zona decentrata rispetto ai soliti circuiti del potere politico ed economico del tempo sottolinea, vieppiù, l’importanza della Valtellina quale crocevia, nevralgico all’epoca, per rilevanti movimentazioni culturali, come quelle intercorrenti tra i centri dell’umanesimo fiorentino ed i centri culturali del Nord Europa. L’autore della “Weltkarte”, Caspar Vopell, nasce nel 1511 in Vestfalia da rispettata famiglia. Nel 1526 s’iscrive all’Università di Montaner a Colonia dove si laureerà nel 1529. Nello stesso anno inizia a svolgere all’interno della suddetta università, l’attività d’insegnate di matematica. In seguito, il cattolico Caspar Vopell sposerà la figlia dell’editore e stampatore di fede luterana, von Aich. Tra il 1536 ed il 1542, sempre a Colonia, Vopell inizia l’attività di cartografo realizzando alcuni globi terrestri. Di questi, l’unico esemplare pervenutoci si conserva nel museo di Colonia. Il passaggio naturale dal globo tridimensionale alla stampa bidimensionale su carta, il cui frutto è la Weltkarte appunto, avviene nel 1545. La carta è dono e simbolico gesto d’accoglienza per l’imperatore Carlo V in visita a Colonia proprio lo stesso anno, ed al cui seguito viaggia anche Hernán Cortés voluto per divulgare e testimoniare “in diretta” le sue gesta oltre oceano. L’immagine del condottiero, infatti, è riprodotta tra le diverse figure mitologiche e non, che costellano gli spazi oceanici della Weltkarte. Della stampa originale del manufatto, non è purtroppo rimasta traccia. Stessa sorte è toccata agli esemplari stampati tra il 1549 ed il 1552, edizioni andate perdute. Ad inequivocabile testimonianza della loro esistenza, tuttavia, sono fortunatamente rimaste copie d’edizioni successive. Le riproduzioni in parola, sono almeno in grado di restituire l’idea precisa dell’aspetto posseduto dalla carta stampata intorno alla metà del secolo XVI. Alla Houghton Library dell’Università di Harvard, infatti, è conservata, anche se in pessime condizioni, l’edizione “abusiva” stampata a Venezia da Andrea Valvassore, detto Guadagnino, nel 1558. Alla Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel inoltre, troviamo la splendida edizione postuma della carta di Caspar Vopell, edita ad Anversa nel 1570 da Bernard van den Putte. Per finire, come si è detto sopra, è a Teglio, all’interno della sala della Creazione di palazzo Besta, che possiamo ancora ammirare la rappresentazione in scala fedele del manufatto in questione. Di Caspar Vopell ricordiamo, inoltre, la carta dell’Europa stampata nel 1555 e la carta del Reno stampata nel 1558. Straordinaria poi è la produzione di sfere armillari dotate di piccoli globi terracquei dipinti a mano dallo stesso geografo. Solo cinque esemplari sono però sopravvissuti. Il primo, del 1542, è conservato nel museo londinese della Picture Library. Due esemplari del 1543 sono custoditi uno presso il Museo di Copenaghen ed un altro alla Libreria del Congresso di Washington. L’esemplare del 1546, è nella collezione privata di Luigi Koelliker, a Milano. L’ultimo, risalente al 1557, è stato rintracciato dagli scriventi nel febbraio del 2008. Il prezioso manufatto, è custodito in provincia di Como, presso privati. A pochi anni dalla realizzazione di quest’ultimo oggetto, Caspar Vopell si spegnerà nella sua città, Colonia: è il 1561.
  
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