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lunedì 17 luglio 2017

La Commedia dell'Arte (Il Carnevale)


LA COMMEDIA DELL’ARTE
Articolo apparso sull'Enciclopedia dei ragazzi Mondadori, volume III, 1958
Libro xx   -   il  LIBRO DEL TEATRO - Pagg. 1998 - 2001


Anni or sono, un celebre critico definì un famoso attore italiano come un discendente dai « Comici dell'Arte ». L'attore era tanto geniale quanto incolto, e se l'ebbe a male. Ma si placò ben presto, quando qualcuno gli fece sapere che la «Commedia dell'Arte» è stata manifestazione tra le più fulgide del nostro teatro, e i suoi attori non già istrioni rozzi e randagi, bensì artisti di grandissima valentia, ammirati con entusiasmo incredibile, per oltre due secoli, dai pubblici di tutta Europa, nonché da principi, sovrani, artisti e poeti famosi. Isabella Andreini era chiamata «la divina» come ai nostri giorni Eleonora Duse; e, come la Duse fu cantata da Gabriele d'Annunzio, Isabella ebbe fra i suoi esaltatori Torquato Tasso. Tristano Martinelli, famoso Arlecchino, durante un'udienza concessagli da Enrico IV re di Francia, spinse la sua impertinenza fino a sedersi sul trono lasciando il re in piedi; e, s'intende, non venne punito. Al medesimo Martinelli, Luigi XIII tenne a battesimo un figlio; perciò Arlecchino scriveva al re ed alla regina di Francia chiamandoli Compare  Gallo e  Comare  Gallina. Un altro Arlecchino famosissimo, Domenico Biancolelli, assisteva un giorno al pranzo di Luigi XIV, il «Re Sole», e adocchiava certe pernici servite in un gran piatto d'oro massiccio. Il re se ne accorse e disse ai servi: «Date quel piatto ad Arlecchino». E l'attore pronto: «Anche le pernici, Maestà?». Il re, con gesto regale, rispose: «Anche le pernici»; e Arlecchino si portò via il magnifico piatto. Tutte le corti d'Europa ospitarono compagnie di attori «dell'Arte». A Parigi attori italiani ebbero un teatro stabile per circa due secoli, e si fregiarono del titolo di «Comédiens du Roi».


   Orbene: quali le ragioni di un successo cosi grande? Non certo pregi di arte letteraria. La «Commedia dell'Arte» nacque soprattutto come reazione al teatro degli umanisti, che appariva freddo e monotono a un pubblico che non fosse colto. Il suo repertorio era costituito, più che altro, dai cosiddetti scenari o canovacci a soggetto. Erano tracce di commedie, o di drammi pastorali, distese atto per atto, scena per scena; ma le battute non erano scritte per intero, bensì indicate con cenni sommari. Sviluppare quei cenni era compito dell'attore, o della sua capacità d'invenzione. Perciò la «Commedia dell'Arte» aveva il suo pregio nella rappresentazione, non nell'opera scritta. Gli allestimenti erano fastosissimi; alla recitazione si univa la musica e la danza. Gli attori erano insieme cantanti, sonatori, mimi, ballerini, persino acrobati e giocolieri. Lo Scapino Gabrielli sonava egregiamente otto o dieci strumenti. Tiberio Fiorilli, detto Scaramuccia, a ottant'anni somministrava ceffoni ai compagni di scena servendosi della pianta dei piedi. L’Arlecchino Visentini sapeva fare il salto mortale reggendo in mano un bicchiere di vino senza versarlo; e in certe scene di comico spavento, usciva dal palcoscenico e si metteva a correre sui parapetti e i cornicioni dei palchi, tutt'intorno alla sala.
   E tutto questo non era, non poteva essere frutto d'improvvisazione, bensì di una preparazione lenta, accurata, meticolosa.


   Accadeva qualche volta, è vero, che l'attore inventasse, anche improvvisasse battute particolarmente vivaci. Però quelle battute venivano subito registrate e replicate all'infinito. Cosi, anche al nostro tempo, attori come Ferravilla, Scarpetta, Petrolini, i De Filippo. Le battute non erano scritte per intero, ma supplivano largamente certi zibaldoni scritti e anche stampati: contenevano i cosiddetti lazzi, cioè facezie o motti arguti; c'erano soliloqui o tirate, vale a dire racconti, sfoghi appassionati, invettive; c'erano concetti, che erano detti complicati, bizzarri e ingegnosi; c'erano sortite per cominciare una scena oppure saluti e chiusette per concludere e andar via. Alla necessità di una preparazione lenta, accurata, meticolosa, risponde la denominazione stessa di «Commedia dell'Arte». Nel Medioevo recitavano attori improvvisati, dilettanti, come i nostri filodrammatici; e recitavano solo di quando in quando, in certe ricorrenze festive o religiose. Invece col Rinascimento si costituirono le compagnie regolari, composte di gente che faceva l'attore di professione, il comico di mestiere o d’arte. E costoro cominciavano ad addestrarsi fin dall'infanzia.



   Inoltre c'erano le maschere, ed erano quanto si può pensare di più lontano da ogni improvvisazione.  È noto che  nella «Commedia dell'Arte» i personaggi erano quasi sempre gli stessi, tipi fissi o convenzionali, che ricomparivano di opera in opera con lo stesso nome, lo stesso abito, la stessa truccatura, lo stesso linguaggio; e fra questi tipi alcuni portavano una maschera che copriva il volto, tutto o in parte, e rendeva ancor più fissa la fisionomia. Cosi ogni attore finiva con l'essere lo specialista di una parte sola per tutta la sua carriera, o tutt'al più di due o tre parti, a seconda dell'età.


  

   Del resto, anche gli attori moderni sono ben lontani dall'improvvisare quanto vorrebbero far credere. Gli attori sono in genere abbastanza vanitosi. Forse gli applausi danno loro alla testa come un buon vino. Una delle loro vanità è quella di farsi credere geniali, rapidissimi nel capire o interpretare un personaggio. Ma ciò è vero solo in certi casi e fino a un certo punto. Gli attori più rapidi non sono sempre i più bravi. Certo non improvvisano gli attori grandi, gli artisti veri, almeno quando affrontano personaggi di grande impegno; anzi elaborano un personaggio, una parte, per mesi e mesi, talora per anni. È rimasto proverbiale il caso di Giovanni Emanuel, un grande attore dell'Ottocento, che studiò per molti anni l'Edipo Re di Sofocle e non lo rappresentò mai; si sentiva sempre imperfetto per una creazione cosi grande. Insomma in teatro, come in ogni arte, l'improvvisazione serve ben poco, è quasi sempre faciloneria, superficialità, grossolanità. Diceva Alessandro Manzoni che genio è «pensarci su». L'affermazione non va presa alla lettera. Per scrivere i Promessi Sposi ci vuole anzitutto quel dono raro che si chiama ispirazione. Certo, però, anche il «pensarci su» è elemento fondamentale; senza il «pensarci su», la ispirazione non rende ciò che potrebbe. Cosi una pianta, quando è coltivata con cura, dà fiori più belli e frutti più buoni.

Le maschere della Commedia dell'Arte e le loro attribuzioni.
Le maschere più famose erano le seguenti:
   a) Arlecchino, e i suoi simili: tutto un corteo  di  zanni o buffoni: Truffaldino, Scapino, Mezzettino, Tabarrino, Frittellino, Pedrolino, Sganarello, Coviello, Tartaglia, Canassa, Fracanappa, Zangurgolo, ecc. ecc. Erano servi ora sciocchi ora astuti, ora balordi ora intriganti, ora fannulloni ora faccendieri. Arlecchino era goffo e scansafatiche, goloso, mangione e sporcaccione. Portava una maschera nera, tonda e camusa, e un abito intarsiato di mille colori. Aveva sempre con sé una spatola e somministrava botte sonanti sulla testa o su altre parti meno nobili degli altri personaggi.
   Arlecchino era bergamasco e cosi pure Brighella: «Mi son Brighella, Gavicc e Gambòn — da le vallae de Bergamo — sensal de matrimoni e giügadór de balon». Cosi diceva Brighella, in una specie di presentazione. Era talvolta servo intrigante (Brighella viene da briga, imbroglio), talaltra servo affezionato e fedele. Portava un abito bianco orlato di verde.
   Una specie di Arlecchino napoletano era Pulcinella, gobbo, tutto vestito di bianco, con maschera nera e naso adunco. Di carattere somigliava un poco ad Arlecchino; ma era molto più intelligente, ragionatore; era filosofo bonario, accomodante, rassegnato alla miseria e alle beffe; e infine, da buon napoletano, gran cantore.
   b) Pantalone de' Bisognosi, vecchio signore o vecchio mercante, talora onesto, accorto e bonario, talaltra taccagno, rimbambito e vizioso. Portava un abito scarlatto con cappa e tòcco neri, e sul volto una maschera nera col naso adunco e con la barba a pizzo volto all'insù.
   e) Il Dottor Balanzon o Dottor Graziano: medico ignorante e tronfio, saccente e spropositone. Veniva da Bologna, sede di una famosa università, e parlava mescolando italiano, bolognese e latino. Vestiva come i medici del Seicento: gran cappa nera con lattuga bianca intorno al collo e gran cappellone.
   d) Il Capitan Fracassa o Capitan Spaccamonti, Capitan Matamòros (ammazza-mori), Capitan Spavento di Vallinferno. Era spagnolo. La Spagna era la patria ideale degli hidalgos, nobili spiantati e affamati, capitani di ventura pieni di boria, spacciatori di frottole gigantesche e di gesta strepitose. Fracassa vestiva pomposamente da gentiluomo del Seicento, con gran cappellone piumato, e portava un'enorme durlindana. Era magro e allampanato come la morte; aveva voce tonante e cavernosa da «orco mangiaputtini».
   e) Colombina oppure Corallina, Smeraldina, Argentina, Olivetta, Pasquetta ecc. Era la servetta tutta pepe e brio, civetta e spiritosa, corteggiata da servi e padroni, e capace di gabbarli tutti in una volta.
  f ) Rosaura e Florindo erano gli innamorati sentimentali e sospirosi. Si chiamavano però anche Isabella, Ardelia, Angelica, Angela, Flamminia, oppure Lelio, Ottavio, Fabrizio. Le madri, le mogli, le sorelle, le cognate si chiamavano spesso Beatrice, Clarice, Leonora.
   Molte maschere avevano una patria, quasi simboleggiavano una città o una regione. La maggior parte, però, era veneziana. Venezia era la città ideale del teatro e delle feste, del carnevale e delle baldorie, del buonumore e della gioia di vivere ovverossia del morbín. I «Comici dell'Arte» dovevano assicurare in contratto, quando venivano scritturati, di saper parlare correntemente il dialetto veneziano.
   Quando Goldoni attuerà la sua famosa riforma del teatro, le maschere tramonteranno a poco a poco. Riappaiono ancora oggi, ogni tanto, quando si rappresentano talune commedie di Goldoni o Gozzi, di Molière o Marivaux. Eccezione illustre sarà Pulcinella: a Napoli egli resisterà fin quasi ai nostri giorni e verrà via via impersonato da interpreti abilissimi, divenuti poi famosi.
   Le maschere hanno lasciato una loro eredità, i cosiddetti ruoli, cioè tipi diversi e fondamentali di attori e attrici cui si assegnano parti di un genere determinato: il Primo Attore e la Prima Donna, l'Amoroso e l'Amorosa, l'Ingenua, la Servetta, il Brillante, il Mamo (una specie di brillante giovane, un po’ sciocco), il Padre nobile e la Madre nobile, il Caratterista, il Generico, la Seconda Donna, la coquette, per parti di civetta, di mondana, di donna bella e vanitosa. Gli attori che sanno sostenere più ruoli si chiamano Promiscui. In quasi tutti questi ruoli è possibile riconoscere la maschera originaria che ad essi corrisponde.


Una illustrazione tratta da un albo di Mandrake dei primi anni '70, edito a Roma dai Fratelli Spada.

Libro xx   -   il  LIBRO DELLE CURIOSITÀ - Pagg. 4531 - 4532
Che cos'è il carnevale?
   Carnevale vuol dire carnem levare, questa espressione si riferisce al giorno che precede le Ceneri, cioè al primo dì di quaresima: nei primi tempi dell'era cristiana, in questo giorno si sarebbe dovuto prepararsi ad un regime più parco e severo cominciando col privarsi della carne; ci si privava della carne, infatti, ma per abbandonarsi (quasi allo scopo di rifarsi in anticipo del prossimo periodo di penitenza) a sollazzi e gozzoviglie. Cosi si spiega la contraddizione apparente fra il significato vero della parola carnevale e quello ch'essa ha invece oggi nell'uso comune. In pratica il carnevale corrisponde press'a poco (che la sua durata varia da regione a regione) a quella settimana che precede la quaresima: teoricamente, tuttavia, esso dovrebbe cominciare subito dopo il Natale e, per essere esatti, la sera di San Silvestro. Non per nulla in questo giorno si inauguravano le stagioni d'opera dei grandi teatri.
   Il carnevale assurse, nei secoli passati, al massimo splendore in parecchi luoghi; specialmente a Venezia, a Firenze, a Torino, a Ivrea, a Nizza. In Firenze — col favore dei Medici, signori della città — i festeggiamenti si svolsero in forma grandiosa, con mascherate su carri allegorici (i « trionfi ») accompagnate dai canti detti appunto «carnascialeschi». Uno di questi canti è il famoso elogio di Bacco e di Arianna composto da Lorenzo de' Medici stesso (detto il Magnifico). Il carnevale deriva, secondo alcuni studiosi, da antiche feste latine in cui, dopo un certo periodo di dissipatezze e di piaceri, veniva messo a morte un fantoccio travestito da re (ciò che ancor oggi si fa in alcune città, specialmente in quel giorno di metà quaresima che è detto per lo più carnevalino e che è come un ritorno di fiamma dell'autentico carnevale).    Questo  rito burlesco sta forse a significare la morte dell'inverno: di qui il tripudio di tutti e l'attesa della primavera, della sua gioia, dei suoi frutti. Il carnevale avrebbe dunque  un'origine   agricola, contadina.  Probabilmente   esso   significa   anche un'altra cosa:  la libertà da ogni norma, da ogni legge,  da ogni  autorità: almeno   per  pochi   giorni, ciascuno faccia a suo genio ciò che vuole e si comporti a dispetto d'ogni  controllo!  In questo caso il carnevale sarebbe una prefigurazione caricaturale di quel mondo in cui ciascuno potrebbe fare ciò che vorrebbe (se questo mondo fosse possibile!).
   Ecco perché in Calabria v'è l'uso di portare in giro, sulla groppa di un asino, chiunque nel giorno di carnevale venga sorpreso al lavoro.


Un bell'abito carnevalesco.
   In molte città oggi si costuma, a modificazione dell'antico uso del re del carnevale, proclamare le reginette del carnevale. L'uso è nato in Francia ma ha avuto subito successo anche da noi: cosi, invece di grossi bamboloni fatti di paglia e coperti di stracci, sono state scelte graziose bambole in carne ed ossa, abbigliate come autentiche regine.
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una splendida illustrazione dell'illustratore Guido Zamperoni, tratta dal cap. 10 del Libro del Teatro.
   La «Commedia dell'Arte» è certo una delle manifestazioni più fulgide del teatro italiano. Essa nacque nel sec. XV, come reazione al teatro grave e solenne degli umanisti, di quei letterati, cioè, che traevano l'ispirazione per le loro commedie dagli autori classici, greci e latini, si che il loro teatro era fatto più per le persone colte che per la grande massa del popolo. La «Commedia dell'Arte» trionfò non solo in Italia, ma in tutta l'Europa; e le cosiddette «maschere», cioè le figurazioni tipiche dei personaggi principali che agivano in queste commedie, divennero presto di fama universale. In questa tavola abbiamo rappresentato le maschere più popolari e più celebri del nostro teatro dell'Arte; esse indossano i loro abiti tradizionali, come appaiono ancor oggi nei cortei carnevaleschi e, qualche volta, anche sui palcoscenici. Molte di queste maschere le riconoscerete a prima vista come quelle di Arlecchino, con l'abito tutto a toppe, di Pantalone veneziano, di Pulcinella napoletano; altre vi riusciranno meno note, perché facenti piuttosto parte di tradi­zioni regionali. Eccovene, in ogni modo, l'elenco: 1. Giangúrgolo -(Calabria); 2. Florindo; 3. Gioppino (Bergamo); 4. Rosàura; 5. Sandrone (Modena); 6. Fagiolino (Reggio Emilia); 7. Scaramuccia (Napoli) ; 8. Brighella (Venezia); 9. Isabella; 10. Tartaglia; 11. Stenterello (Firenze); 12. Rugantino (Roma); 13. Pulcinella (Napoli); 14. Meneghino (Milano); 15. Dottor Balanzone (Bologna); 16.  Capitan Spaventa (Genova);  17. Arlecchino;  18.  Colombina;  19. Pantalone (Venezia); 20. Gianduia (Torino); 21. Mezzettino.

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Una Maschera moderna degli anni '60


   Negli anni '60 apparve su MammaRai, una nuova maschera che allietò l'infanzia dei bambini di quegli anni. Si trattava di Gaetano Pappagone. Come è scritto nel frontespizio dei suoi fumetti illustrati dal Maestro Luciano Bernasconi, "Il suo nome, come tutte le altre maschere, ha origini antiche che oggi possono risultare quasi imprecisabili, comunque, la fonte alla quale Peppino ha inteso ispirarsi è il nome che si dà ad una qualità di prugne di poco costo chiamate, secondo l'usanza popolare napoletana: «Pappacone». Gaetano Pappagone è ignorante, pavido, pieno, più che di sentimenti, d'istinti primitivi, ma onesti. Malizioso e, messo a contrasto con la realtà della vita di tutti i giorni, diviene a volte, per forza di cose, anche furbo. Una maschera del costume dei giorni d'oggi che, con la interpretazione che ne ha dato Peppino De Filippo, ha trovato la sua espressione più giusta e simpaticamente popolare." 


    Una maschera tanto popolare [come quella del pagliaccio Scaramacai interpretato da Pinuccia Nava 1920-2006], che però è scomparsa con la dipartita del popolarissimo Peppino De Filippo. Ma negli anni '50, sempre per restare in tema di fumetti, non possiamo dimenticarci delle Maschere che facevano sognare i piccoli lettori del Pioniere, insieme a Chiodino e a Cipollino.


Marco Pugacioff

                       
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