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martedì 28 febbraio 2017

Oceani, mari e pesci


Oceani, mari e pesci
Già pubblicato sulla rivista Bolina n. 349 – febbraio 2017


Poseidone con il tonno, uno dei suoi attributi: coppa del IV secolo a. E. V. di Oltos.
Museo nazionale di Copenaghen.

Era la fine del secolo scorso quando l’IMO, l’Organizzazione Marittima Internazionale, lanciava un allarme: se si continua a pescare in questo modo nel 2050 gli oceani e i mari saranno senza pesci. Che il pesce stesse diminuendo se ne erano già accorti da anni i pescatori. La compagnia di pesca Albacor, specializzata nella pesca oceanica del tonno, fino al 1996 riempiva le stive di un suo peschereccio in una settimana, nel 1998 le servivano due settimane di lavoro e nel 2001 in due settimane riempiva metà stiva, e questo calo era avvenuto su tutti i pescherecci della compagnia in tutti i mari del mondo.

I motivi principali per la riduzione del pesce nei mari erano raggruppabili in tre cause:
1.    un’evidente maggiore richiesta del mercato, conseguenza anche dell’aumento della popolazione mondiale;
2.    l’inquinamento dei mari, conseguenza delle acque inquinate dei fiumi che vanno in mare, degli oceani usati come discariche di materiali radioattivi e dei milioni di tonnellate di plastica che finiscono in mare;
3.    una pesca sempre più tecnologica, intensiva e indiscriminata.

Lungo le disabitate coste della Patagonia abbiamo visto navi-fattoria lunghe oltre cento metri battenti bandiera coreana che si lasciano andare alla deriva con enormi tubi che dai fianchi scendevano sul fondo per succhiare dal mare e dai fondali tutto quello che esiste: pesci, cetacei, tartarughe, calamari, alghe, plancton. Il tutto appena aspirato a bordo viene tritato, disidratato, polverizzato, insaccato e deposto sui pallet pronto per essere sbarcato come farina di pesce per l’alimentazione umana e animale o, in alternativa, come concime. Dove passano questi “aspirapolvere del mare” per decenni non può vivere più nulla. Non solo i fondali oceanici sono soggetti a queste forme distruttive di pesca.


Dipinto di Giuseppe Casali all’ingresso del Museo della Marineria di Cesenatico

L’Adriatico è il mare più pescoso d’Italia. I bassi fondali e l’apporto dei fiumi lo hanno sempre reso un mare ricco di fauna ittica che viene usata in loco ed esportata. Nelle città di mare adriatiche i ristoratori servono il pesce fresco dell’Adriatico contemporaneamente ai loro colleghi ristoratori di Milano o di Parigi. Per centinaia di chilometri di costa il pescato rappresenta la seconda fonte di reddito dopo il turismo balneare, ma soffermiamoci un attimo a guardare come si pesca.
Le vongole sono prese da imbarcazioni apposite che danno fondo alla loro ancora sui bassi fondali sabbiosi, si allontanano a motore filando il cavo e poi calano sul fondo dei gabbioni di ferro collegati alla coperta da un tubo. A quel punto il peschereccio inizia ad alare sull’ancora, il gabbione trascinato gratta il fondo del mare coi suoi pettini. Le vongole e tutto quanto è presente sul fondo viene aspirato dal tubo che pompa tutto a bordo per essere selezionato, le vongole vengono lavate e insaccate mentre il resto, ormai distrutto e privo di vita, è buttato in mare. Arrivato quasi a picco sull’ancora la vongolara si allontana in una direzione differente in modo da “pettinare” il fondale a raggiera attorno all’ancora. Come si vede una pesca non molto dissimile da quella delle navi-fattoria lungo le coste della Patagonia.  
Altra forma di pesca caratteristica dell’Adriatico è la pesca a strascico. Quando i pescherecci erano a vela si calava in mare una rete appesantita nella parte più bassa. La rete era calata dalla prua e dalla poppa poi il peschereccio manovrava le vele in modo da scarrocciare col vento. In questo modo la rete grattava il fondo del mare per un’ampiezza pari alla lunghezza del peschereccio. Se il vento e il mare lo permettevano si aumentava l’ampiezza della rete armando a prua e a poppa delle aste con funzione di buttafuori e così la rete era più larga e si operava su un tratto più largo di mare. Con l’avvento del motore la pesca a strascico cambiò: da allora si cala la rete da poppa e per tenerla larga si usarono due apparati di legno derivati dai dragamine chiamati “divergenti”. A motore più potente corrisponde una rete più grande e più pescato.
Nei primi decenni del 1600 la Repubblica di Venezia considerò la pesca a strascico distruttiva per i fondali e ne proibì l’uso nelle sue acque, che all’epoca si estendevano dalla Dalmazia alle foci del Po. Alcuni pescatori di Chioggia decisero allora di abbandonare le acque della Serenissima Repubblica ed emigrarono con barche e famiglie a sud del Po e così da allora la pesca a strascico si espanse su tutta la costa italiana dell’Adriatico.
Non possiamo non notare la lungimiranza della Repubblica di Venezia che già quattro secoli fa si preoccupava della salute del mare e prendeva provvedimenti in merito, cosa che ai giorni nostri pare difetti a livello mondiale.

L’Italia che per secoli, millenni, è sempre stata ricca di pesce al punto da esportarlo, ora non lo è più da tempo. In Italia l’anno scorso si sono pescati 1,27 milioni di tonnellate di pesce [fonte: report del 2016 del New Economic Foundation], appena sufficiente a coprire un quarto della richiesta del mercato italiano, per gli altri tre quarti il pesce sulle nostre tavole deve provenire dall’estero. L’Europa, che fino al 1974 era autosufficiente per la produzione di pesce, ora lo è solo per metà, il resto proviene dai grandi oceani e dalle coste di paesi che non sfruttano le proprie risorse ittiche ma vendono le proprie “quote pesca” ad altre nazioni, come fa appunto l’Argentina per le coste della Patagonia.



Narra la Mitologia che, dopo aver portato i Baccanali in Grecia, Dionisio volendo andare nell’isola di Nasso si imbarcò su una nave di pirati tirreni, ma i pirati si diressero verso l’Asia pensando di venderlo come schiavo. Allora, il dio, accortosi della manovra, trasformò i loro remi in serpenti, riempì la nave di edera e fece risuonare la musica di flauti invisibili; tocco finale, fermò la nave con ghirlande di viti. I pirati impazziti si buttarono a mare, trasformandosi in delfini. È per questo che i delfini sono amici degli uomini e cercano di salvarli durante i naufragi, perché sono pirati pentiti.
Nella foto: particolare di un’idria (Antico vaso per l'acqua a tre manici),
del V secolo a. E. V. oggi al museo d’Arte di Toledo.


La differenza sostanziale tra il pescatore e il contadino non è la evidente differenza del luogo di lavoro, il mare per l’uno e la terra per l’altro, ma che il pescatore raccoglie ma non semina mai.
Partendo da questo assunto alcune compagnie di pesca anni fa hanno proposto all’IMO che su tutti i pescherecci vengano imbarcati dei biologi o dei veterinari col compito di togliere le uova ai pesci prima che questi vengano lavorati o congelati. Le uova così raccolte potrebbero essere fecondate in laboratorio, generare nuovi pesci che potrebbero essere allevati in vasca fino al raggiungimento di una minima taglia. I pesci potrebbero poi essere immessi in mare liberi di mangiare, migrare, riprodursi.. e cercare di non essere pescati. L’idea, che aveva un costo previsto attorno al dieci per cento del costo di produzione, fu accettata solo da alcune società mentre altre si dissero decisamente contrarie, chi per non sostenere il costo dell’operazione, e chi lamentava che il pesce allevato nelle sue vasche sarebbe potuto essere pescato dalla concorrenza.
Da allora sono passati quasi vent’anni e nonostante il boom degli allevamenti di pesce e di mitili la situazione non è migliorata. I pescherecci montano apparecchiature sempre più costose e sofisticate per individuare il pesce che continua a calare in tutti i mari del mondo.
Pavan Sukhdev della FAO, l’ente per l’alimentazione delle Nazioni Unite, continua a dire che intere specie di animali acquatici sono in via d’estinzione, che un quarto delle risorse biologiche marine rinnovabili è depauperata e sovrasfruttata, che nel 2050 non ci sarà più pesce nei mari e negli oceani… ma nessuno lo ascolta.


Cucciolo a pesca di Michele Seccia

Chi è responsabile di tutto ciò? A chi daremo la colpa della fine dei pesci nei mari e negli oceani? Al denaro? Ai politici? All’aumento della popolazione? Alla stupidità umana? Non vorrei che alla fine la colpa fosse del vecchietto che pesca con un filo e un amo da bordo della sua barchetta a vela.

@ 26 ottobre ’16
Galileo Ferraresi

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martedì 21 febbraio 2017

Clima e piante nel Piceno medievale


Clima e piante nel Piceno medievale

Mi è stato chiesto di parlare per un’ora di piante, di come si distribuiscono sulla superficie terrestre, parlare cioè di Fitogeografia; in relazione in particolar modo alla teoria di Giovanni Carnevale su Aquisgrana in val di Chienti.
Nella figura si vedono due areali come esempio, anche per ricordare che il modo corretto di raffigurare un areale non è quello di riportare una linea che delimita a Nord o a Sud la distribuzione di una specie, ma di evidenziare in colore in una carta geografica la zona in cui la specie cresce e fruttifica.



Fig 1 ( areali ulivo leccio corbezzolo fico)
Io non avrei voglia di fare lezione, anche perché non sono certo un luminare sull’argomento. Solo per caso scelsi questa disciplina per la mia tesi di laurea in Scienze Biologiche.
Vorrei solo fare delle considerazioni sul nesso che la Fitogeografia ha con la tesi di Aquisgrana delocalizzata dalla Germania all’Italia.
Non potendo parlare di tutte le specie botaniche mi limiterò alla vite e all’ulivo.
Ho già scritto qualcosa in proposito in”Aquisgrana Restituta”del 1996, aggiornata poi nel 2005 e nel 2013. Ci tengo a precisare di essere stato per parecchi anni l’unico ad aver messo nero su bianco che la teoria di Carnevale è giusta, portando anche validi argomenti.
Qualcuno potrebbe giustamente pensare che io abbia abbracciato la teoria di Aquisgrana a San Claudio perché ci sono nato: in parte questo ha contribuito, inutile negarlo. Ma se mi sono esposto alla facile ironia è anche perché non ho mai trovato un valido contradditorio se non questo ragionamento: non è possibile che tante teste d’uovo delle università si siano sbagliate per tutto questo tempo.
E qui scatta la favola: per dire per primo “il re è nudo”ci vuole anche parecchia ingenuità, non solo amore per la verità. Per il secondo, il terzo e così via diventa più facile; ma quello che sorprende in questa vicenda è come la maggioranza si ostini a non guardare e a continuare a dire: “il re è vestito splendidamente”.
Ma torniamo a bomba, sennò perdo il filo del discorso.
Il motivo principale del dare ragione a don Carnevale è che della “querelle” sul Capitulare de Villis avevo già una discreta conoscenza dai tempi del Liceo Classico.
Avevo letto brani del francese Marc Bloch e del belga Francois Ganshof che criticavano l’austriaco Alfons Dopsch. (qui ci vorrebbe il prof Morresi Nazzareno)
Questo storico di origini ungheresi, Dopsch, (1868 – 1953), nato sotto l’impero austro-ungarico, ha scritto in tedesco: motivo per cui io non ho letto direttamente nulla di questo signore, (a malapena conoscerò una decina di parole in questa lingua).
Ma è lui che è stato il primo a dire che l’Aquisgrana di Carlo Magno non poteva essere Aachen, a causa della flora mediterranea citata nel “capitulare de villis”.
Dopsch collaborò agli MGH per la sezione dei diplomi carolingi. Nella sua analisi dell’epoca carolingia insiste fortemente sull’elemento romano, che si tendeva a dimenticare nei paesi di lingua tedesca.

Sottolineò la mancanza di rottura (absence de cassure, riferisce Ganshof) dopo la fine dell’impero romano nello sviluppo economico dell’Europa dell’alto medioevo.
La sua interpretazione, in contrasto con Henry Pirenne, belga come Ganshof, del “capitulare de villis” e dell’epoca carolingia era vista come rivoluzionaria, tanto che non fu accettata nelle università tedesche, ma comunque costrinse gli storici a rivedere le loro posizioni.
(Ma come poteva essere accettata in Germania, dico io, proprio mentre stava nascendo il Nazionalsocialismo, che si nutriva del mito di Carlo Magno e del Sacro Romano Impero?)
Sia Ganshof che Bloch erano allievi di Pirenne e criticavano Dopsch, pur rispettandolo formalmente.
Il francese Marc Bloch è stato un grande storiografo che si era formato nelle università tedesche, che morì fucilato dai nazisti nel 1944.
Egli tendeva a minimizzare, senza confutarla, la scoperta di Dopsch: scriveva che non aveva tanta importanza se Aquisgrana stava da un’altra parte, che per la storia nel suo complesso importava poco se stava più a sud, perché immaginava un altro posto al confine tra Francia e Germania, non certo in Italia!
Questo discorso già a quei tempi non mi convinceva per niente, già a 16 anni.
Ma come, il paladino del metodo scientifico, della interdisciplinarità applicata alla storiografia come poteva dire che non importava dove era realmente localizzata la reggia di Carlo Magno?
A che gioco giochiamo?
Per farla breve, se gli storiografi possono prendere cantonate, più o meno in buonafede, se i documenti sono falsificabili, alcuni addirittura falsificati all’origine, a me pare inconfutabile che le piante non possono mentire.
Ma è indispensabile saper distinguere. Nei miei ricordi di bambino di San Claudio sono impresse con chiarezza palme e piante di banano all’ingresso della chiesa. Questo mi autorizza a dire che san Claudio al Chienti si trova in Africa?
Ma devo essere breve.
Ora mi devo concentrare sugli areali della vite e dell’ulivo nell’Alto Medioevo.
Alto Medioevo è il periodo che va dalla deposizione di Romolo Augustolo da parte di  Odoacre fino alla morte di Ottone terzo ( 476 – 1002).
Areale è il termine che descrive la distribuzione di una specie botanica sulla superficie terrestre, l’oggetto di studio della Fitogeografia.
Le piante si distribuiscono sulla superficie terrestre in correlazione con gli elementi e con i fattori del clima.

Gli elementi sono quelli che cambiano: temperatura, umidità, pressione atmosferica, precipitazioni, nuvolosità, venti.
Fattori sono quelli che non cambiano: latitudine, longitudine, altitudine, distanza dal mare, disposizione dei monti, esposizione al sole, correnti marine.
La cosa è complicata dal fatto che parliamo di specie coltivate.
Chi ha ricostruito la storia del Medioevo riteneva che i fattori del clima fossero stabili: in realtà non lo sono. Il clima cambia!
“E’ il clima che decide la storia” dice in sintesi Wolfgang Behringer in “Storia culturale del clima”, edito in italiano da Bollati – Boringhieri , scritto nel 2010 a Saarbrucken.
E conclude con un motto latino: “tempora mutantur, et nos mutamur in illis”, I tempi cambiano e noi cambiamo in essi.

I compilatori degli MGH non potevano conoscere i moti millenari della Terra: che l’asse terrestre oscilla ciclicamente, che la distanza Terra – Sole varia di circa 10 milioni di chilometri, che il sole non irradia il suo calore in maniera costante. Le oscillazioni a breve periodo (11 anni) si conoscono già; quelle a lungo periodo gli uomini le sapranno fra secoli, se non si estinguono prima. Non potevano sapere che vulcani, anche quelli  dell’altro emisfero, possono vomitare tanta cenere da oscurare il sole per mesi, sconvolgendo il normale ritmo delle stagioni.
Oggi abbiamo questa certezza: il clima cambia.
Quando sono nato io, l’anno dell’alluvione del Polesine, gli esperti prospettavano un “global cooling”, un raffreddamento globale.
Quando frequentavo l’università contrordine: i gas serra ci portano al “global warming”, al riscaldamento globale.
Tanto che i libri di testo della mia materia di insegnamento facevano previsioni apocalittiche, specialmente sull’innalzamento del livello del mare. Anche i programmi del ministero pressavano ad inculcare negli studenti i pericoli del riscaldamento globale.
Attualmente un altro contrordine: siamo all’inizio di una nuova piccola era glaciale.






Fig 2 ( diagrammi climatici)

Anche se parecchi non se ne sono ancora accorti e continuano, anche nei media, con la fissa del global warming. I casi più illustri: papa Francesco e Barack Obama, quelli più illustri fra chi i discorsi non li scrivono del tutto in prima persona. Più aggiornato sembra essere Donald Trump, accusato di negazionismo del global warming.
Insomma la Scienza dovrebbe essere chiara e oggettiva, ma gli scienziati non sono né chiari né oggettivi, non sono in sintonia fra di loro, lasciando intravedere interessi nascosti più che il “seguir virtute e canoscenza.”


Fig 3 ( copertina del libro di Behringer)

Mi sono letto il saggio di Wolfgang Behringer, docente di storia presso l’università di Saarbrucken, un luminare esperto anche di storia del clima, nella speranza di leggere dati aggiornati e analisi imparziali di uno che ha i mezzi e il tempo per queste cose.
E per questo lo pagano anche.

Dagli anni successivi alla seconda guerra mondiale gli scienziati hanno potuto usufruire di varie possibilità di risalire alle temperature del passato.
·       Carote di ghiaccio;
·       Isotopi dell’ossigeno;
·       Isotopi del carbonio;
·       Computo delle varve: analisi di sedimenti marini, lacustri, fluviali;
·       Paleobotanica e palinologia;
·       Paleozoologia;
·       Termoluminescenza per datare le ceneri vulcaniche;
·       Dendrocronologia.      

Mi resta il dubbio di dimenticare qualcosa in questo elenco ma può bastare.
Le carote di ghiaccio dell’Antartide hanno permesso di ricavare le temperature dell’atmosfera fino a 800.000 anni fa.

Per l’Europa i dati più attendibili sono quelli dedotti dal ghiacciaio Fernau e da una torbiera prossima ad esso. Si trova fra l’Austria e l’Italia, pressappoco fra Vipiteno e Innsbruck.


Fig 4 Mario Pinna diagramma

I dati delle temperature degli ultimi 2.000 anni, riportati da Mario Pinna, indicano un periodo più caldo dell’attuale per tutto il periodo migliore dell’impero romano.
Dal 400 all’800 le temperature si abbassarono; dopo l’800 si alzarono determinando l’optimum basso medioevale (1.000 – 1.200), a cui seguì una piccola era  glaciale
(Maunder minimum) dal 1.400 al 1.800 circa.
Questi dati di Mario Pinna non coincidono del tutto con quelli di altre zone della Terra, è normale, ma siccome il ghiacciaio del Fernau sta al centro dell’Europa, è a questi che dobbiamo fare riferimento per il nostro Medioevo.
Durante il periodo romano quindi la vite (vitis vinifera) poteva e fu effettivamente coltivata in Gallia, cioè nella Francia attuale, fino alle coste dell’Atlantico.


Fig 5  areale vite Pignatti

In Germania la coltivazione della vite arrivò a Treviri, sulla Mosella, ma non in tutta la valle del Reno, solo nelle zone a sinistra del fiume fra Strasburgo e Magonza.
 Solo dopo la predicazione di san Bonifacio, (circa 680 – 754), grazie ai monaci benedettini, per l’esigenza del dir messa, la vite vi fu coltivata nelle colline riparate dai venti del Nord ed esposte a Sud più settentrionali rispetto a Magonza.
Per coltivare la vite ci vuole anche la cultura (o coltura. Solo negli ultimi anni nell’italiano ha assunto un significato diverso) del vino, che le popolazioni Germaniche non avevano.

Reginone di Prum attesta nella sua cronaca che nell’anno 882 la vite era coltivata a Coblenza, Andernach, Sinzig, praticamente fin dove il Reno scorre in una valle stretta fra le colline. Il capo Goffredo, si lamentava che la zona che aveva avuto, che comprendeva Colonia, non produceva vino. Allora voleva anche le località sopra menzionate.
Reginone di Prum, (840 – 915) fu abate di questa abbazia imperiale nell’Eifel, presso Treviri; fu impegnato a ricostruire l’economia del luogo dopo le incursioni normanne del periodo 882 – 892.
Questa testimonianza di Reginone è importante anche perché afferma che Carlo il Grosso, non riuscendo a controllare la bassa valle del Reno, la Frisia, per tenerselo buono, aveva ceduto quella regione al capo vichingo Goffredo. Questa zona comprendeva Colonia, ma anche la zona dove ora c’è Aachen. Se Aquisgrana fosse stata lì è impensabile che Carlo il Grosso l’avesse ceduta a Goffredo.
In seguito la vite fu coltivata anche in valli riparate fra l’Elba e l’Oder, nel periodo caldo, l’optimum basso medioevale, in cui fu possibile coltivarla anche in Inghilterra.
Con l’avvicinarsi del “Maunder minimum” l’areale della vite ritornò verso Sud.
Oggi il vino si produce anche ad Aachen, ma non si può ignorare quello che è successo nel 1.800: la fillossera, la peronospora e l’oidio stavano per far estinguere la specie “vitis vinifera sativa”. (Esisteva anche la vitis vinifera sylvestris, vite selvatica).
Fu salvata dall’estinzione innestando le viti superstiti su portainnesti, (apparato radicale), di vite americana, resistente ai parassiti  ma anche a temperature più basse, (vitis labrusca, aestivalis, rotundifolia, rupestris, vulpina).
La vite che si coltiva oggi non è quindi la stessa specie che si è coltivata in Europa dai tempi biblici fino al 1.800, è un ibrido resistente al freddo: certo che ora può essere coltivata anche ad Aachen. Ma è fuor di dubbio che non ci poteva crescere la vitis vinifera sativa, tanto più nel periodo freddo alto medioevale.
Da non sottovalutare anche il discorso che i moderni coltivatori hanno aumentato in maniera esponenziale la loro capacità di selezionare varianti genetiche più adatte a situazioni locali circoscritte.

Il nostro “Herr Behringer” dà pochissimo rilievo alla piccola era glaciale alto medioevale, adducendo la carenza di dati storici attendibili, così non riporta nemmeno i dati paleo climatici, che invece sono attendibili come quelli di qualsiasi altro periodo.
Probabilmente questa pecca è stata rilevata solo da me, che avevo comprato il libro apposta: per avere in dettaglio i dati climatici del periodo freddo alto medioevale.
Altra pecca di questo autore, (che mi induce a pensarne male): parla del vino come se la specie che lo produceva nel medioevo e quella che lo produce oggi fosse esattamente la stessa.

Questo sarebbe comprensibile per quelli che scrivono su “cronache maceratesi”, sul “Resto del Carlino” o su “la Rucola”, (chi fa caso ormai a tutte le castronerie che si leggono sui giornali?), ma è inammissibile per un docente universitario storico di professione.

Ma la differenza fra “Vitis vinifera sativa” del medioevo e i vari vitigni ibridi oggi utilizzati non è una quisquiglia, è un fatto fondamentale!
Non ci sono ca… (no, la parolaccia non la dico), nel periodo di Carlo Magno ad Aachen il vino non ci veniva prodotto e non ci si poteva produrre. Come non ci si potevano coltivare parecchie delle specie menzionate nel ”capitulare de villis”.

Qualche intelligentone ha tirato fuori l’obiezione che se Aquisgrana era san Claudio al Chienti, nel “capitulare de villis” sarebbe stato nominato l’ulivo. Invece questo particolare che sembra contrario è un elemento a favore.
Nelle Marche fra il 400 e l’800 l’ulivo non ci cresceva per il periodo freddo alto medioevale; l’ulivo non resiste alle gelate.
Certamente la sua coltivazione ci fu iniziata anche prima del periodo ottimale dell’impero romano, ma poi il suo areale si dislocò più a sud e più a ovest.
Non dovrebbe essere un mistero il fatto che le temperature medie invernali del clima tirrenico sono di circa cinque gradi superiori a quelle del clima adriatico.
Nelle Marche l’ulivo ritornò ad essere coltivato durante l’optimum basso medioevale per essere di nuovo abbandonato durante la piccola era glaciale (Maunder minimum), per ritornare ad essere coltivato dopo il 1.800. Lo dico basandomi solo sui dati della temperatura, ma le analisi palino logiche dei sedimenti, se qualcuno ha voglia di farle, confermeranno facilmente quanto ho detto.
Si accettano scommesse.

Nell’attesa dei dati palinologici riporto alcune frasi delle prime cose che ho trovato in rete sull’argomento: dal libro di Barbara Alfei ed Enrico Maria Lodolini: “ Olivo nelle Marche” :
 “Tra il Seicento e il Settecento (1.600 -  1.700), la coltivazione dell’olivo quasi  scomparve. Napoleone negli anni 1.811 – 1.813, stabilì premi per coloro che… avevano coltivato la colza o posto a dimora e allevato, per almeno 4 anni, 400 alberi d’olivo…
… la coltivazione dell’olivo nelle Marche ha un’origine antichissima. Già nel VII secolo a. C. nel Piceno l’olivo era coltivato insieme al grano e alla vite; ciò è confermato dal ritrovamento di grandi contenitori, i doli. Successivamente l’olivo venne abbandonato, si confuse con la vegetazione spontanea, si inselvatichì… ritornò ad essere coltivato dai monaci benedettini…
…Attualmente nelle Marche la superficie coltivata a olivo è in costante aumento. “

Olea europaea è una pianta sempreverde, che nel periodo più freddo (dicembre – gennaio) va in riposo vegetativo. Resiste alle gelate poco meglio degli agrumi ed  è una pianta molto longeva.

Ma nelle Marche non esistono alberi di ulivo secolari: al massimo di duecento anni. A meno che qualcuno se lo abbia comprato in Puglia prima che il loro commercio fosse vietato.

Come per la vite, c’è da tener conto della selezione artificiale operata dai coltivatori, per cui oggi esistono “cultivar”più adatte a climi che presentano qualche giornata sotto zero, se non sono troppe e se non si va troppo sotto allo zero.
Ma la specie è tipicamente termofila e caratteristica del clima mediterraneo.

A questo punto, esaurito l’argomento scientifico, dovrei chiudere, perché ho detto quasi tutto quello che volevo dire, e una vocina mi dice di smettere perché non ci guadagno nulla a continuare, perciò è sicuro che ho solo da perdere.
Il guaio è che non riesco a capire se la vocina è di un angioletto o di un diavoletto.
Nel dubbio seguo una via di mezzo facendo una drastica sintesi.
Non è possibile che gli storici tedeschi non conoscano Alfons Dopsch e non conoscano Giovanni Carnevale. Ma quando hanno ignorato Dopsch in Germania comandavano i Nazionalsocialisti, o, più semplicemente, i Nazisti.
Non è che sotto sotto comandano anche adesso?
Forse esagero ma di sicuro il Nazionalismo tedesco esiste.
Lo conferma la “Aachen connection” del Diesel gate Volkswagen.


Fig 6

Macerata, li 23 gennaio 2017 
                              Mancini Enzo

va agli



sabato 18 febbraio 2017

Hannibal ad portas


Hannibal ad portas

Dove furono attraversate le Alpi da Annibale con il suo esercito al cui seguito c’erano 15.000  animali fra cavalli, muli ed elefanti?
Sappiamo quando avvenne il passaggio, a fine ottobre del 218 a.C. , ma non sapevamo dove.
Già dopo 200 anni gli storici romani erano già in disaccordo. Tito Livio sembra indicare il Monginevro; Polibio era per il Moncenisio.
La “querelle “ sul passaggio di Annibale è durata più di duemila anni ma infine il mistero è stato risolto. Dagli escrementi.
Un fatto è incontestabile: tutti quegli animali, seguiti da un numero doppio di uomini, defecavano.
In duemila anni quasi tutti i passi alpini fra Italia e Francia , dal col di Tenda al Gottardo, ( questo veramente porta in Svizzera), hanno avuto fautori, ma Annibale ha scollinato sul colle delle Traversette, vicino al Monviso, a circa 3.000 metri sul livello del mare.

 
    Da dove viene questa sicurezza: da una frana a doppio strato che è presente solo per questa via, che rallentò di tre giorni la marcia dei Cartaginesi, e da residui fecali rinvenuti presso due laghetti, (Porcieroles e Lestio), che si trovano sul versante francese a mezzo chilometro dal versante italiano.
Sul versante francese nasce il Guil, affluente della Durance, sul versante italiano nasce il Po.
La notizia è comparsa in vari giornali, fra cui il mensile “Le Scienze” di Aprile 2016.
Questi residui fecali, rinvenuti a due palmi di profondità, contengono spore di Clostridi caratteristici dei cavalli, che grazie al carbonio 14 hanno fornito una data di circa il 200 a.C.
Considerando che il metodo non può essere più preciso di dieci o venti anni in più o in meno, la data del 218 a.C. ci rientra.
Fra quelli che avevano visto giusto nell’indicare il colle delle Traversette si possono ricordare il generale Guillaume e il biologo alpinista Gavin de Beer.
C’è voluto del tempo. Ma il mistero è stato risolto.
Dei 37 elefanti nord africani sopravvisse alla traversata delle Alpi un solo esemplare, di cui sappiamo anche il nome: Surus.
Tutti gli altri non ce la fecero a superare l’inverno italiano; e pensare che si era già nel periodo caldo definito optimum romano.
Bisognerà aspettare mille anni per vedere in Europa un altro elefante: Abul Abbas.
Dicono che sia arrivato sul suolo italiano nel 799, più sicuro il suo arrivo ad Aquisgrana nell’802, scortato da un ebreo, Isacco, dono del califfo Harun al Rashid a Carlo Magno.
Ma se Surus è passato alla storia quale simbolo di forza, duro a morire, il pachiderma di Carlo Magno doveva essere di un altro pianeta per resistere 10 anni agli inverni della Westfalia, quando non era ancora terminato il periodo freddo alto medioevale.
E non morì di freddo, ma per una indigestione.
Nei paraggi di San Claudio al Chienti, quando la teoria di Giovanni Carnevale sarà presa sul serio, dovrebbe venir fuori lo scheletro di un elefante.
Sarà Surus o Abul Abbas?
La datazione al radiocarbonio non può sbagliare di mille anni!

Enzo Mancini
Macerata 18 febbraio 2017
 
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L’elefante di Carlo Magno


L’elefante di Carlo Magno
Articolo anonimo della serie “Gli animali celebri”
apparso sul mensile a fumetti francese Zembla
del 5 novembre 1981
illustrazioni di Daniel Colin
 
 
   Intorno all’800, un grosso pachiderma originario dell’Asia e arrivato in Europa dopo un lungo periplo, non era cosa comune. Bisogna quindi immaginare l’ammirazione terrorizzata che dovettero provare i sudditi di Carlo Magno, scoprendo che esistevano delle bestie così mostruose. Nell’assenza pressoché totale di informazioni venute dall’esterno, le popolazioni d’occidente inventavano e trasmettevano delle leggende.


   Carlo Magno, il nuovo sovrano d’Occidente, capì ben presto che un Re non poteva accontentarsi di avere la reputazione di essere un prode spirito di giustizia, ma che doveva colpire gli spiriti. Ebbe dunque l’idea di inviare al lontano califfo Haroun-al-Rashid – in Persia, tre delegati che dovevano chiedere per lui… un elefante! Un anno più tardi, arriva infine la notizia che l’animale, venuto specificatamente dalle Indie aveva traversato la Siria e attendeva sulla costa africana. Si invia una flotta, e meno di un mese dopo, il battello ancorava a Porto Venere, in Liguria. Il 20 luglio 802, l’elefante sfilava trionfalmente nella città di Aquisgrana.



   All’inizio del nono secolo, due sovrani dominavano il mondo: Carlo Magno che regnava in Occidente, Haroun-al-Rashid che controllava quasi la totalità del mondo arabo. Le sole ombre alla loro egemonia: L’imperatore di Costantinopoli e l’emiro di Cordova in Spagna. Si cercava di mostrar loro che l’asse Aquisgrana-Bagdag esisteva: dove scambi di ambascerie in gran pompa, portatrici di regali inauditi, di cui se ne parlava sia nei castelli che nelle capanne di paglia.
   Incuriosite, le cancellerie di Spagna e quelle del mondo ottomano si agitavano. I loro sovrani si interrogavano sul perché di queste manifestazioni reciproche di prestigio e divennero così sia prudenti che accomodanti.
   L’elefante gigante venuto dalle Indie fece dunque l’effetto di una bomba pubblicitaria. Tra il Tigri e il Chienti, si gettò un ponte simbolico. Non sorridiamo: utilizzando i “buoni uffici” di un inviato così straordinario per l’epoca, Haroun-al-Rashid e Carlo Magno pensarono a lungo che nessun’altro avrebbe potuto far di meglio.


Liberamente tradotto e adattato da Marco Pugacioff
 
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mercoledì 15 febbraio 2017

Julenisse o Babbo Natale



Julenisse
o
Babbo Natale



Il folletto protettore della casa

    In Scandinavia, il Nisse (o anche Tomte o Pixies) è un folletto o spirito di famiglia che è responsabile della cura e della prosperità di una fattoria o di una famiglia, in particolare di notte quando si dorme. Un Nisse è solitamente descritto come un uomo o una donna di bassa statura (non più alto di 90 cm), dalla forza straordinaria che indossa un abito e un berretto rosso. Comunque, ci sono anche racconti in cui sembra che sia un essere mutaforma in grado insomma di prendere una forma molto più grande di un uomo adulto, oppure secondo altri racconti, il Nisse ha un unico, ciclopico occhio. Non basta, fa gara con Mandrake il mago nel creare illusioni e può pure rendersi invisibile e al buio i suoi occhi riflettono la luce come gli occhi dei gattini.
   Se la credenza nei folletti o spiriti custodi è una tradizione molto antica in Scandinavia, nelle nazioni vicine (in Danimarca, Norvegia meridionale e al sud della Svezia), la credenza nel Nisser dovrebbe risalire al tardo XVIII o al XIX secolo. Molte fattorie asserivano di avere il proprio Nisse, dove questo folletto faceva molti lavori campagnoli, come governare i cavalli, sistemare le balle di fieno, e le relative attività agricole. Il bello è che era molto più bravo dei altri lavoranti. Ma il suo carattere era però molto capriccioso, se non peggio. Infatti se la famiglia che lo ospitava non si comportava bene (tipo dargli una ciotola di porridge al burro alla vigilia di natale sulla porta di casa era meglio sparire dalla circolazione), perché sennò – e per un bel po’ – ti ci faceva sparire lui dalla circolazione. In un racconto si narra che una cameriera norvegese ebbe la malaugurata idea di mangiarsi lei il porridge, col risultato di finire duramente picchiata dal Nisse.
   Questo folletto con l’arrivo del cristianesimo fu purtroppo demonizzato. Se le voci su di una famiglia che avesse avuto in casa un Nisse fosse arrivato alle autorità religiose, il fattore avrebbe corso il rischio di essere accusato di reati vicini alla stregoneria. In un famoso decreto del  14 ° secolo Saint Birgitta (ovvero Santa Brigida) mette in guardia contro il culto di questi folletti, (Revelationes, libro VI, cap. 78) che sono chiamati anche tompta gudhi, gli dei Tomte. Il termine svedese Tomte deriva dal luogo di residenza, la casa o tomt.



L'arrivo dei regali
illustrazione di Jenny Nyström

   Dal 1840 il folletto delle fattorie Nisse, si mise a portare i regali di natale in Scandinavia, ed è stato così chiamato "Julenisse" (o anche folletto di natale « lutin de Noël ») e da allora è associato al Natale, insieme alla capra Yule –  altra creatura mitologica nordica – o insieme delle renne, oppure ancora da un gattino e comunque sempre con una slitta. Però al contrario di babbo natale non vive al Polo Nord, ma in genere in una foresta, in un campo o in un ruscello vicino. Lui (o lei) non scende dal camino la notte di Natale, ma giunge alla porta d'ingresso, per la consegna dei regali alla famiglia loro amica.
    A tutt’oggi, gli svedesi, alla vigilia di natale, depongono sulle finestre una ciotola di farina d’avena perché Julenisse possa nutrissi.


Rappresentazione di Julenisse di Jenny Nyström

   Nel 1881, la rivista svedese Ny Illustrerad Tidning pubblica il poema Tomten di Viktor Rydberg, dove il folletto solitario veglia durante la fredda notte di natale, e fa riflessioni sui misteri della vita e della morte. Lo scritto è illustrato dall’artista Jenny Nyström [pittrice e illustratrice svedese di libri per l’infanzia (1854-1946] che lo raffigura con barba bianca e abito rosso, di già molto vicino al nascente babbo natale.
Midvinternattens köld är hård,
stjärnorna gnistrar och glimmar.
Alla sover i enslig gård
djupt under midnattstimma.
Månen vandrar sin tysta ban,
snön lyser vit på fur och gran,
snön lyser vit på taken.
Endast tomten är vaken.
(…)
« Il freddo della notte di metà inverno è duro,
le stelle scintillano e luccicano.
Tutti nella fattoria isolata dormono
profondamente a mezzanotte.
La luna fa il suo corso silenziosamente.
La neve brilla di bianco su pini e abeti,
la neve brilla di bianco sui tetti.
Solo il folletto, il tomte, è sveglio.»


Arrivano i folletti di natale (lutins de noel) jenny nystrôm


Affresco di Ambrogio Lorenzetti al palazzo pubblico di Siena, raffigurante un uomo con una palla di neve, visione allegorica dell’inverno.

   Si è associato la parola Nisse, propria di questo folletto, alla parola Yule che indica la festa del solstizio d’inverno dei popoli germanici. Attraverso il sincretismo, come già avvenuto coi nostri Saturnali, così anch’essa fu associata al natale cristiano. Ecco da dove nasce il nome di Julenisse.

 
In Québec, il folletto (lutin in francese) è associato ai gattini bianchi (ma anche ai cani e ai leprotti). Vedi https://fr.wikipedia.org/wiki/Lutin

 
Illustrazione per il "Tomten" di Astrid Lingren


  
Nonno Gelo


Una graziosa scatolina in vendita su e-bay il cui coperchio raffigura una fiaba del principe Vladimir Fëdorovič Odoevskij su Nonno Gelo.


   In Russia, ed anche nella scomparsa Unione Sovietica, Ded Moroz (Дед Мороз), vale a dire "Nonno Gelo", ha lo stesso ruolo del nostro Babbo Natale. È il re dell’inverno e un potente sovrano della foresta. Indossa una bacchetta magica e porta doni ai bambini durante i festeggiamenti di Capodanno, spesso accompagnato dalla nipotina Snegurochka (Снегурочка) e a bordo della classica troika, il carro-slitta trainato da tre cavalli.
   Gelo (Мороз, ma anche conosciuto come Морозко, o ancora come naso rosso) era l'antico dio slavo dell’inverno, del freddo e del gelo, che [Se ho interpretato bene la traduzione] nei racconti sul Vento del Nord, è un uomo dotato di doni miracolosi. Vi è un racconto in cui un mugico era intento alla pratica della semina vicino ad un abete, ma una volta lasciato il campo, tutto il suo lavoro andò perso. Tornato a casa sconsolato, raccontò tutto alla moglie che gli disse che ciò era dovuto a Gelo, che doveva andare a scovarlo e richiedergli i danni. Il povero uomo fu spinto così dalla sua “vergara[1]” ad andare nella foresta, ma il poveraccio perse ben presto l’orientamento, finché trovò un sentiero che lo portò a una capanna di ghiaccio. Si avvicinò, tolse i ghiaccioli dalla porta e bussò. Venne ad aprirgli un vecchio tutto bianco; era proprio Gelo che donò al mugiko il suo vestito e la sua bacchetta magica.
   In altri racconti il dio Gelo personifica diversi fenomeni di tempesta, difatti dalla sua bocca arrivano brina e ghiaccioli e con i suoi capelli produce nuvole di neve. Sempre il dio Gelo, secondo i contadini, è un vecchio dalla lunga barba grigia che all’inizio dell’inverno, corre attraverso i campi e le strade e poi bussa alle porte di casa; se il suo picchiare alla porta è molto forte, arriveranno gelo e ghiaccio. Se ha colpito l'angolo della capanna, allora sicuramente verrà una crepa.


   Nei villaggi della grande Russia, è tuttora presente la forza del suo potere naturale nell’immaginazione popolare, che lo raffigura come un potente guerriero, con forze uguali al nostro Ercole.
Alla vigilia di natale il capofamiglia prende un cucchiaio di Kuti o kolyva (una polenta di grano, miele e noci, che in tempi antichi era conosciuto come “cibo degli antenati”), va alla finestra e dice «Gelo, gelo! Vieni c’è il dolce. Non colpire il nostro terreno.»
   Nel primo periodo della rivoluzione fu un personaggio accantonato ma poi, già dai primi anni ’30 fu rivalutato e il suo abito di colore celeste fu convertito in rosso come era il colore della bandiera sovietica.


"Nonno Gelo e la figliola adottiva," [Snegurochka la figlia della Fata Primavera e del Vecchio Inverno e che Jarilo, il Sole, l'aveva condannata a morire se mai si fosse innamorata di un ragazzo], poi Snegurochka divenne la nipotina di Nonno Gelo.  illustrazione del 1932 di Ivan Bilibin (1876, morto durante l’assedio di Leningrado del ’42) per il racconto popolare russo "Nonno Gelo" (Morozko).


L'immagine di Nonno Gelo (che sotto il vestito porta la maglietta dei spetsnaz) è stata usata nella propaganda anti-nazista durante la seconda guerra mondiale. Illustrazione del 1941

 
Questo francobollo sovietico raffigura Nonno Gelo sulla troika di fronte ad una torre del Cremlino a Mosca. La scritta С Новым Годом, significa naturalmente buon anno.


"buon anno 1991!" L'ultimo francobollo dell'URSS con Nonno Gelo

La Befana


Un vecchio Rebus, che ben figura l’offerta di un dono

   La Epiphaneia (il periodo odierno dell’epifania), era il festeggiamento dedicato alla manifestazione della Dea natura in cui i prati e gli alberi germogliavano in primavera. Ma arrivò Numa Pompilio che aggiunse i primi due mesi dell’anno, Gennaio e Febbraio, e la ricorrenza fu spostata ai giorni seguenti del solstizio d’inverno. Si racconta che quando Romolo cinse di mura la sua città, i cittadini gli offrirono come simbolo di prosperità, un fascio di rami verdi presi dal vicino bosco sacro della Dea Strenua, tradizione che mantenne poi tutti gli anni. Spostandosi le date, la ricorrenza di offrire rami sacri d’alloro e d’ulivo passò alle calende di gennaio. Sono l’origine delle nostre strenne, strenne che avevano anticamente la forza – data dalla salute (nella pronuncia sabina strenua significava Salute) che portava la Dea – di allontanare gli spiriti maligni provenienti dal Mundus[2], quando si chiudeva la porta dell’anno vecchio e si apriva la porta dell’anno nuovo (simboleggiato dal Dio Giano). Erano i cicli della vita e della morte che si rinnovavano e nei riti romani più antichi si donavano statuine della Dea bianche in occasione di una nascita e nere in occasione di una scomparsa. Questi doni si tramutarono nello zucchero, bianco, e nel carbone, nero; i regali odierni per i bambini buoni o cattivi della Befana.

 
    Nelle campagne sopravvisse a lungo la religione pagana e per secoli restò come simbolo di fertilità la Dea Diana, la dea dal bel viso perennemente giovane, libera e selvaggia. E Diana veniva vista spesso di notte (anche poi, durante il cattolicesimo) andare a caccia seguita dal suo corteo di ninfe – la brigata di Diana appunto – e si incominciò a favoleggiare che volava con la scopa sui campi, nella prima settimana di gennaio per benedire i campi seminati. Infatti gli anziani mi dicevano "sotto la neve c'è il pane", ha sottolineare che il grano riposa sotto la neve prima di germogliare con il caldo e darci così il pane.  La sua scopa era realizzata con una qualità di vimini provenienti dal Colle Viminale, (Mons Viminalis), dove doveva essere il bosco sacro della Dea Strenua. Fu la Chiesa a trasformare la Dea Strenna in Strega[3] e con lei anche Diana che si vide trasformare in una vecchietta a cavallo di una scopa a portar regali ai bambini.   

Tante Arie




     Ma la Befana esiste al di fuori dell’Italia? Sì! È la francese Tante Arie, la zia Arie, vive nelle foreste franc-comtoises [le foreste della Franca Contea], nelle montagne del dipartimento della Jura, la Giura, a cavallo tra Francia e Svizzera e risiede in grotte profonde e di difficile accesso.
    Tra queste vi sono  la "Roche de la Faire" (la roccia della fata) à Beurnévesin, "Sous la terre qui sonne" (Sotto la terra che suona) à Etobon, nella grotta della chaîne (catena) di Lomont oppure nella grotta di Millandre presso Boncourt. Ma il suo luogo di residenza preferito è la grotta della Combe Noire (il valloncello nero) a Blamont, tutte cittadine non lontane tra di loro.

 
L’ingresso della grotte della Combe Noire

    Ogni luogo ha la sua leggenda. Ha Boncourt, la zia si trasformerebbe in una viverna (essere leggendario simile a un drago) per fare il bagno nei laghetti di acqua chiara; A Daucourt si cambierebbe in serpente e possiederebbe un cofano pieno d’oro; A Réchésy, la zia avrebbe denti di ferro, una corona di diamanti e delle zampe di gallina e getterebbe i bambini cattivi nel fiume. Per molti, le pieghe della sua camicia rappresenterebbero dei fiocchi di neve.  
    Secondo alcune leggende la zia sarebbe l’ultima delle druidesse oppure la moglie di Odino; cosa a me simpatica, il suo nome deriverebbe dal latino Aëria[4].



La contessa Henriette de Montbéliard (1387-1444), Finestra di vetro nel coro della chiesa collegiata di San Giorgio a Tubinga.

   Ma l’origine della zia è da ricercarsi nella storia, più che nella mitologia. la contessa Henriette de Montfaucon - Montbéliard visse nel castello di Etobon del XV secolo. Henriette era una donna che brandiva le armi come un cavaliere per proteggere la sua contea. Era anche generosa con i suoi sudditi tanto che quando morì nel 1444 fu rimpianta da tutti. Visto che era tanto amata, il cielo la rimanda spesso in terra con l’incarico di vegliare sulla sua contea e beninteso per ricompensare i bambini. Arie deriverebbe dal nome Henriette pronunciato Ariette nel dialetto locale.


    Nella regione di Montbeliard [nel dipartimento del Doubs, regione della Franca Contea] è considerata la bonne fée [la buona fata] almeno dal 15° secolo, e ricompensa i bambini saggi e punisce i petit diables, i piccoli diavoli.
    La zia Arie ama invitarsi alla tavola degli abitanti e verifica anche la buona tenuta delle case, ed infine aiuta ben volentieri le casalinghe [che nel Piceno, come ho già scritto, sarebbero le vergare]. Inoltre aiuta le ragazze in attesa di maritarsi, insegnando loro la filatura del lino e della canapa.
    Ancora, la zia d’inverno si copre con uno scialle per proteggersi dal freddo e percorre la regione accompagnata dal suo asino Marion e distribuisce regali e pasticcini ai fanciulli giudiziosi ma anche mucchi di fascine imbevute d’aceto ai bambini disobbedienti.  

Un libro sulla Zia

 
Fonti:

 http://www.fjorn.com/whatispixie.html



Queste tradizioni sono però dei sogni che prima o poi svaniranno e di loro non resterà niente. E il disegno dello scheletro del drago, guardiano dei tesori di Theodor Severin Kittelsen, esemplifica bene questo mio pensiero.



[1] La vergara picena è una figura centrale del mondo contadino (parola che secondo l’interpretazione popolare significa “conta i dì – i giorni – per la semina”). Dice Cesare Angeletti: «La famiglia era questo nucleo o “clan” familiare piramidale a capo del quale c’era il vergaro cioè “portatore di verga”, quindi uomo che comanda. Vicino a lui c’era la vergara che comandava di meno, in teoria, ma in pratica la notte in camera da letto poteva far valere le sue ragioni. La figura della vergara c’è in tutta Italia: mi hanno chiamato dal Trentino dicendo che anche loro hanno questa figura; i due fratelli Guareschi (i figli di Giovannino) mi hanno scritto dicendo che loro hanno una figura uguale chiamata residora, quindi reggitrice. Quindi la figura di questa donna straordinaria c’è in tutta Italia.» vedi:
È quindi la maniera migliore – per me – per denominare in italiano l’energica donna del mondo contadino russo.
[2] Il Mundus era l’ingresso al paese dei morti, a cui si accedeva attraverso una profonda fenditura. Si narra che qui Romolo vi aveva sepolto suo fratello. È situato nel Foro romano, accanto all’arco di Settimio Severo. Situato al centro della città, fu poi chiamato Ombelico di Roma.
[3] A parte l’etimologia che fa derivare la parola Strega dal greco stryx o strygòs, cioè da strige o barbagianni, questa origine in effetti sarebbe più pertinente.


[4] Nella mitologia romana Giunone indicava l'aria [caelum Iunonis nomine consecratu, quae est soror et coniux Iovus. Cicerone, De natura deorum, Libro II, cap. 66], ed era chiamata Aëria [Et Macrobius, Junonem aeriam dictam. Lilius Gregorius Gyraldus, Historiae Deorum Gentilium L. III]. Presiede con Giove ai fenomeni atmosferici. Giunone (come ci informa Boccaccio nel libro nono sopra la geologia degli dei), è vincolata a suo marito Giove con catene d'oro, e con incudini di ferro appesi ai suoi piedi.

Marco Pugacioff
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